domenica 22 luglio 2007

Haiku 11

Dormi beata.

Ora aspetto il mattino,

dolce Agostino.

giovedì 12 luglio 2007

I ciechi provano vergogna per la loro nudità?



«Erano nudi e non si vergognavano» (Genesi 2,25)

Qual è lo statuto ontologico della vergogna? Perché Adamo ed Eva prima del peccato originale non provavano vergogna per la loro nudità? La vergogna ha a che fare con il corpo o con lo spirito?
Cercherò di rispondere a queste domande facendo riferimento a due autori che pongono il tema della vergogna in due domini separati, da una parte Agostino e il tema della vergogna come conseguenza del peccato originale, e dall’altra Sartre con il tema della vergogna e il problema dell’esistenza d’altri, da una parte lo spirito e il dominio della morale (Agostino) e dall’altra il corpo e il dominio fenomenico (Sartre).

Nel capitolo 17 del Quattordicesimo libro del De civitate Dei, Agostino si interroga sul tema della libidine come conseguenza del peccato originale in relazione al pudore. La domanda che muove questo capitolo è cioè: “Perché Adamo ed Eva incominciarono a provare pudore per la loro nudità?”
La Genesi ci dice che Adamo ed Eva prima del peccato erano nudi senza vergognarsi di ciò. Secondo Agostino l’assenza di pudore nello stato edenico era garantito non dal fatto che la nudità fosse a loro sconosciuta, ma perché la libidine non stimolava ancora gli organi genitali. Sappiamo che prima del peccato originale Adamo ed Eva godevano dello stato di rettitudine e cioè di giustizia originale che consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, delle facoltà inferiori alla ragione e del dominio del corpo da parte dell’anima. La rettitudine si caratterizzava in rapporti di subordinazione. Tutto era finalizzato e orientato alla contemplazione di Dio garantita dalla componente razionale dominante su tutte le altre facoltà umane. In questo consisteva la perfezione di Adamo, in questo consisteva la sua giustizia. La giustizia era fondata su un rapporto interno al soggetto-Adamo fondato da rapporti di sottomissione finalizzati alla contemplazione del fine ultimo Dio. A seguito del peccato Adamo ed Eva perdono la giustizia originale e sperimentano la disubbidienza. Si tratta di una disubbidienza interiore che rompe il rapporto di identità tra volere, dovere ed essere ma anche i rapporti di subordinazione che garantivano la perfezione originale adamitica: la ragione non dominerà più le facoltà inferiori, il corpo non sarà più dominato dalla ragione e l’anima non contemplerà più perfettamente Dio. Il corpo diventa carnale nella carne, è un corpo erotico, concupiscente che ha bisogno di essere coperto. Subito dopo aver peccato Adamo ed Eva infatti si accorgono di essere nudi e “intrecciano foglie di fico e se ne fecero cinture”, l’aprire gli occhi di cui si fa menzione nella Genesi non è un risveglio oculare, è il risveglio della libido. Libido viene da Libet e indica un piacere sfrenato, incontrollabile. La libidine è appunto il sintomo più eclatante dell’inordatio dovuta alla colpa adamitica. I genitali si muovono ora senza volontà, la volontà non governa più niente.
La vergogna per Agostino nasce dalla libidine e la libidine è conseguenza della disubbidienze, colpa e pena dei primi due uomini. La vergogna ha a che fare con lo spirito, con uno spirito che non riesce più a controllare la carne. La vergogna diventa dunque un fatto morale. Se Adamo ed Eva non avessero peccato avrebbero continuato a vivere nudi e senza vergogna, perché il loro corpo continuerebbe ad essere spirituale.
Ma se la vergogna è sintomo della libidine questo significa due cose:

Più una persona prova pudore e più sente la libidine. In questo senso la persona pudica è la persona più lussuriosa, perché sente maggiormente la carnalità del suo corpo. Il pudore è quindi la veste della carnalità, è la cintura che costringe la libidine a non sfuggire di controllo. La pudicizia è maschera della concupiscenza.
La vergogna non è un fatto oculare, non ha nulla a che fare con la vista e con lo sguardo altrui, pertanto anche un cieco può provare vergogna per la sua nudità.

Ma davvero un cieco prova vergogna per la sua nudità?
Secondo Sarte la vergogna è innanzitutto coscienza di qualcosa. Questo qualcosa sono io. Io ho vergogna del mio essere perché scopro qualcosa del mio essere che prima mi sfuggiva. Ma la coscienza della vergogna non è autocoscienza per Sartre, non è riflessiva. Non è la coscienza di me per me, ma è la coscienza posizionale di me verso un altro. Io mi vergogno di fronte a qualcuno.

«(…) la vergogna nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno» (Sartre, L’essere e il nulla)

Sono in macchina, il semaforo è rosso e nell’attesa mi metto le dita nel naso. Mi giro e scopro che l’automobilista che mi sta di fianco mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e provo vergogna.
La vergogna è quindi la coscienza di me di come appaio all’altro, per questo Sartre ne parla proprio nel capitolo dedicato al problema dell’alter ego. Mi vergogna perché sono visto, perché sono oggetto dello sguardo altrui. In questo senso la vergogna è riconoscimento: riconosco di essere come altri mi vede. Da soggetto della visione divento oggetto dello sguardo, è l’oggettivazione della soggettività che si pone nell’essere nel campo visivo altrui. Due conseguenze:

Non posso provare vergogna senza l’altro, non esiste cioè una vergogna in solitudine.
La vergogna è un fatto fenomenico e cioè di apparizione visivo all’altro. In questo senso sono due le condizioni della vergogna: l’altro e lo sguardo. Un cieco quindi non può provare vergogna per la sua nudità non in quanto sfugge allo sguardo altrui (il cieco non mi vede ma io lo posso vedere) ma in quanto non può riconoscere di essere visto. Fisso un cieco, il cieco diventa oggetto del mio sguardo ma che cosa sente il cieco? Continuerà ad essere soggetto autonomo. Il cieco è soggetto assoluto in quanto è svincolato dalla possibilità di riconoscere di essere veduto.

Eccoci quindi arrivati alla conclusione di questa riflessione. Per Agostino d’Ipponia la vergogna è un fatto morale dovuto alla perdita della rettitudine da parte del peccato di Adamo ed Eva. La perdita della giustizia originale ha comportato la disubbidienza interiore e il corpo diventa carnale nella carne sperimentando la libidine. La consapevolezza della carnalità spinge l’uomo al pudore e la vergogna si costituisce per tanto come riconoscimento della libidine genitale.
Per Sartre invece la vergogna è un fatto fenomenico dovuto al riconoscimento di essere come altri mi vede. Non un fatto morale, ma un fatto di visione. Il riconoscimento della vergogna non è più riconoscimento genitale ma visivo e il dominio della vergogna si sposta dalla morale al problema fenomenologico dell’altro.
Nell’ambito morale anche il cieco prova vergogna perché riconosce comunque la concupiscenza del suo corpo. Nell’ambito fenomenologico il cieco non può provare vergogna perché non riesce a riconoscere lo sguardo fisso su di sé. Ma chi ha ragione, Agostino o Sartre?

martedì 3 luglio 2007

Recensione Transformers



«In principio era il cubo»

Geniale…l’apertura del film è davvero strepitosa: universo, comete e robaccia galattica fluttuante qua e là e dopo…lo zoom della telecamera inquadra un mega cubo di Rubik volteggiare per il cosmo come l’osso del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Ma Michael Bay non è Kubrick, e si vede. Domanda: è possibile fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un gigantesco cubo che si trova sulla terra? No, non è possibile a meno non di fare un film ridicolo. Transformers è un film davvero ridicolo, talmente ridicolo che risulta così geniale che nemmeno Beckett stesso oserebbe tanto, un concentrato di frasi deliranti piene di non-senso, farcite qua e là con della retorica robotica.
Ma veniamo più nello specifico e cerchiamo di capire i motivi per cui questo film non funziona e come, di fatto, non potrebbe mai funzionare. Primo, come già detto è impossibile fare un film su dei robottoni che per giunta si trasformano in macchine, cellulari e altra roba tecnologica. Corollario di questo è che se uno va a guardare, gli stessi Transformers nascono come prodotto ludico degni anni Ottanta. Prima arriva il giocattolo, poi, sulla scia del successo commerciale di questi, nasce il cartone. Seduto su una poltroncina il piccolo Steven Spielberg, allora ragazzino spastico con problemi di socializzazione sogna alieni nani dai grandi occhioni tondi e super robot in cerca di cubi giganti. Passa il tempo e Spielberg cresce. Diventa regista e sforna uno dopo l’altro una serie di film block-buster campioni d’incassi, fino ad arrivare al 2007. Vecchierello e arrivato alla gloria della carriera il nostro caro Spielberg chiama il suo compare Michael Bay, famoso per aver diretto film muscolosi e ipervitaminici, insomma, quelli tutto sparatorie e sparatroie.
Suona il telefono. Primo squillo….Secondo squillo…terzo squillo. Rispondono:

«Pronto Mike? Sono Steve»
«Uè bella, come brutta fratè? (classico modo d’esprimersi dei registi g-giovani)»
«Inzomma, ho preso la gonorrea (fa molto g-giovane la malattia venerea)…senti, ti volevo chiedere, ti andrebbe di fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un cubo gigante? Produco io»
«Un film su dei robottoni venuti sulla terra per un cubo gigante?! Cazzo, questa è davvero un idea geniale, ma come fai a pensare a certe cose? Dio mio, sei un fottuto Hegel del cazzo. Ci sto»

Michael Bay ci sta e dirige il film che viene terminato nel 2007 arrivando a spendere di budget una cifra complessiva di 143 milioni di dollari, una cosa come 8 volte il prodotto interno lordo annuo del Burkina Faso, e non sto scherzando. Il film esce nelle sale il 26 giugno e il 2 luglio vado a vederlo. Mi siedo, bevo un po’ d’acqua e mi sorbisco la pubblicità, infine inizia il film. 144 minuti di pisolate, urla e gente che corre e si dimena, macchine che scoppiano, case che scoppiano, carri armati che scoppiano e persone che, scoppiano. Insomma, esplode tutto, ma la cosa divertente è che nessuno sanguina, nessuno muore, solo un gran casino.
Oggi mi sono collegato ad internet e ho letto le recensioni, sono rimasto basito. Giudizio unanime: è un capolavoro. Allora mi sono chiesto: che cos’è che non va? sono io che non faccio testo o la gente si è rincoglionita davvero? Il mio ego mi spinge per quest’ultima, ma è soprattutto il mio cervello che si rifiuta di considerare Transformers un bel film. Secondo la maggioranza dei recensori il film è bello perché molto coinvolgente, a parte la mancanza pressoché totale di una trama, ma sono gli stessi recensori che si rifiutano di considerare opere artistiche i film porno, allora mi domando, che differenza c’è tra Transformers e un film di Rocco Siffredi? Sono arrivato ad una conclusione: nessuna. Non esiste nessuna differenza rilevante tale da poter porre un distinguo tra i due generi di film, perché Transformer, al di là della semplice ironia è davvero pornografico, ma non nel senso lato del termine, intendo nel senso stretto. Che cosa distingue un film porno da un film erotico? Non l’esibizione genitale, nemmeno di fatto l’esplicità delle scene, ma è la ripetitività della struttura narrativa. Un film porno è strutturato sempre allo stesso modo: c’è lei, c’è lui, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono persone umane, e si svolge l’atto sessuale. Transformers è strutturato allo stesso modo: c’è un robot buono, c’è un robot cattivo, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono robot, e si svolge la battaglia, per 144 minuti. Il risultato è sfiancante e noioso. Avete presente Matrix reloaded, il seguito di Matrix? Le continue zuffe che ad una certa vi fanno alzare dalla poltrone e dire: “E basta! Avete rotto er cazzo!”. Ecco, è la stessa cosa. Ma a sto punto preferisco vedere un film porno, almeno per i primi dieci minuti è gratificante, mentre Transformer è noioso fin dall’inizio.
Buona visione (non andatelo a vedere)