mercoledì 27 dicembre 2006

Recensione The weather man (L'uomo delle previsioni)



L’uomo delle previsioni non è una semplice commedia, è un film tra il leggero e il drammatico, si ride ma la risata non è gioiosa, è carica di tristezza. D’altronde, come si potrebbe chiamare “commedia” un film che ha per protagonista un uomo infelice? Scordatevi film leggeri alla Pretty woman (bleah!) o film stupidamente superficiali come “Il diavolo veste Prada”, questo film potrebbe farvi addirittura male.
Il film parla di un “uomo delle previsioni” (interpretato da un Nicolas Cage strepitoso nella parte), non un meteorologo con laurea, un uomo medio, che fa un lavoro semplice, che vive una vita semplice, che ha avuto un infanzia semplice, un matrimonio semplice – anche se burrascoso – e che ha educato i figli in maniera semplice. Quest’uomo, David Spritzer, non ha mai faticato nella vita, non ha mai sofferto particolarmente per nulla, eppure è infelice. Non è triste, la sua vita è troppo semplice per essere infelice, solo che non è felice. Alla soglia dei quarant’anni si rende conto che le cose sono andate diversamente da come aveva previsto. E’ divorziato, l’ex-moglie lo detesta, vive con la costante certezza di sembrare un “cazzone” agli occhi di suo padre, la gente per strada gli tira addosso del cibo e il suo lavoro gli sembra solamente uno “pneumatico vuoto”. Nulla ha senso per David perché tutto è troppo semplice. Gli occhi di David sono spenti, vedono il vuoto. Poi, quando lavora tutto cambia, i suoi occhi si accendono, Dave ride, peccato che finga.
La vita di David è fast food, lui stesso è fast food. “E’ facile, il sapore non è male, ma non ti fornisce alcun nutrimento”. Così è la vita di David Spritzer, semplice ma senza “alcun nutrimento”, senza uno slancio. Da qui la passione di David per il tiro con l’arco. Il tiro con l’arco rappresenta quello slancio che David desidera ma che non riesce a trovare. Ogni volta che David scocca la freccia è come se cercasse di gettare tutta la sua vita, come se cercasse di “finire” (“la gente preferisce buttare che finire”).
David Spritzer rappresenta l’uomo moderno, quello che butta la vita e che non la finisce, quello che fa fatica a vivere proprio perché la vita stessa è troppo semplice, quello divorziato ma che non ha fatto assolutamente nulla per cercare di risolvere il matrimonio (significativa la scena in cui Spritzer manda a puttane tutto il lavoro terapeutico con la ex-moglie).
A David Spritzer non manca nulla, per questo è infelice. La sua infelicità si rispecchia nell’inverno di Chicago. The weather man è ambientato in una gelida Chicago, piena di neve e di ghiaccio, fredda, eccessivamente.
Poiché fa le previsioni del tempo in tv tutti lo fermano, tutti lo importunano e poiché fa un lavoro fin troppo remunerato per la poca fatica tutti gli tirano oggetti. Dave Spritzer è per molti un pagliaccio, una persona da umiliare.
Il finale del film è significativo. Dopo una vita vissuta nell’infelicità e nella rabbia David accetta la sua condizione e si rasserena. Da questo momento le persone che lo fermeranno non saranno più degli scocciatori ma degli ammiratori. Da questo momento non è più il pagliaccio delle previsioni, nessuno osa più tirargli niente addosso (“forse perché giro con un arco in mano”). David è realizzato, non è ancora felice (le scene finali inquadrano strade tristi e desolate) ma ha accettato la sua infelicità. David Spritzer decide così di "finire" la sua vita, senza buttarla.
Buona visione.

martedì 26 dicembre 2006

Natale in casa Vinello



Ore otto e trenta del mattino, il sole è già spuntato. I raggi colpiscono la mia finestra arrivando a raggiungere il mio viso.
“Ma che cazzo d’ore sono?” penso tra me e me ancora rimbambito dal sonno. Mi giro a vedere la sveglia. 8:30. Cazzo, devo alzarmi. Di norma avrei ancora aspettato trenta minuti buoni prima di scendere dal letto, ma è il 24 dicembre, la vigilia, e ancora devo andare al supermercato a fare la spesa per i temuti giorni di festa. Una persona seria avrebbe fatto una “spesa intelligente” ossia una fatta minimo due – tre giorni prima dell’assalto ai supermercati, io quella settimana ho avuto un calo di intelligenza.
Mentre mi vesto penso al casino che avrei trovato al supermercato. Vecchietti che si aggirano come spettri per i vari reparti come presagio di morte, single annoiati e tristi che per l’occasione speciale decidono di non comprare come di consueto l’ennesima busta di “quattro salti in padella” e azzardano per del macinato di carne, famiglie numerose e uomini dispersi dalla guerra indocinese. Un bel quadretto del cazzo.
Guido per il supermercato e intanto mi accorgo della desolazione delle strade, mi sembra di essere il padrone delle macchine e nel frrattempo fantastico all’idea di poter guidare nudo.
Arrivo al Gs, il parcheggio è pieno, capisco il motivo delle strade deserte. Nonostante tutto nel giro di un’ora sono fuori. Ora mi manca solo cucinare per la cena della vigilia.
Alle tre del pomeriggio incomincio. Prima di tutto bisogna fare il “sugazzo”. Il sugazzo è un sugo di carne molto corposo. Mia madre dice che è talmente corposo che sa di bestiame. Saprà pure di bestia ma se sa di questo è perché è un sugo serio, non adatto a fighette gne –gne o vegetariani vegani.
Per fare il sugazzo ci vogliono come minimo cinque ore di cottura e quindi richiede sacrificio e tempo. Mentre sono in cucina esorto gli altri familiari a mantenere fede a quanto detto precedentemente. Preambolo: la settimana prima avevo detto a mia madre che avrei cucinato per la vigilia e per il natale ma solo i primi e i secondi, il resto, cioè dolci e antipasti, sarebbero dovuti rimanere di competenza altrui. Non è andata così. Alla fine mentre cucinavo ho dovuto pure pensare a finire i “mezzi” piatti di mia madre (mezzi perché iniziati e non finiti) e incominciare quelli di mia sorella ( mai incominciati però finiti). Ho cucinato dalle tre fino alla 21 e trenta.
Alle 20 arriva mio fratello con la moglie e la bambina di neanche un anno. Atroce. Ancora in piena fase di preparativi culinari questi incominciano ad invadere il mio territorio elemosinando stuzzichini e assaggiando ogni cosa possibile, intanto la bambina continua a rompere i coglioni con i suoi piagnistei da neonata.
Alle 21 e trenta si incomincia a magiare. In un modo o nell’altro siamo tutti a tavola, pure i cani si sono messi nella posizione dello scrocca cibo, quella tipica canina con il muso all’in su e gli occhi che ti guardano nel profondo nell’anima dicendoti tra le righe “Ho fame, dammi da magnare”.
Iniziamo con gli antipasti. Pizze, pizzettine varie, crocchette e tartine in abbondanza, anzi, l’abbondanza è talmente eccessiva che dopo mezz’ora siamo già tutti sazi. Alle 22 incomincio a servire i mie tortelli di carne al sugazzo. Arrivo con i piatti in mano ma non vedo nessuno, c’è solo il cane vicino a me che elemosina ancora ulteriore cibo. Dove cazzo sono andati? Il cane mi guarda e fa: “Tua madre è andata a controllare i croccantini dei gatti, tua sorella parla al cellulare con il suo ragazzo mentre tuo fratello e sua moglie cercano di far addormentare la bimba”.
Aspetto. Passano trenta minuti, la pasta ormai è fredda. Un pomeriggio buttato per servire toretelli freddi.
“E’ l’ultima volta che cucino per natale. L’anno prossimo andate tutti a mangiare al ristorante cinese con il pericolo di pijare la sars! Al limite, se proprio mi riverrà la malsana idea di cucinare farò una selezione dei tavoli: tu puoi mangiare, tu no, tu no, e dato che prima siamo rimasti solo io e il cane ho deciso di cucinare solo per noi due”
Mentre dico questo gli “invitati” ridono, come a pensare che fosse uno scherzo. Ero serio.
Alle 23 la tavola è ancora vuota. Penso ai tempi in cui la presenza fissa a tavola era sacra, a quel periodo in cui la gente doveva chiedere il permesso prima di alzarsi e fare i comodi loro. Penso alla decadenza dei mie tempi e alla bellezza del passato, alle punizioni corporali e al prestigio autoritario del capo famiglia, ormai decaduto.
Alle 23 e trenta si riparte col dolce: pandoro con crema al mascarpone, anche questa fatta da me. Mia madre assaggia e disgustata dice: “Blah, è troppo dolce!”. Vorrei strozzarla. E’ dalle tre che cucino e mi si criticano pure i piatti, l’anno prossimo cinese, non ci sono cazzi!
Basta, sono deluso e stanchissimo. Mi ritiro in camera e accendo la tele. Dopo due minuti crollo dal sonno.
Sono in un campo verde, bellissimo e senza nessuno intorno. Senza un rumore, senza movimento, una pace totale. Mentre corro per questo parco faccio una capriola e in fine mi accascio per terra, mentre con le mani accarezzo l’erba. Sono sdraiato in un bel campo d’erba. Ad un tratto una mano gigantesca mi smuove.
“Dani, dani!, svegliati che apriamo i regali”
" Uuumm, che ore sono?"
"E' l'una di notte"
Diavolo, sti maledetti regali, voglio solo dormire, penso ancora sonnecchiato
Ormai sono sveglio e quindi decido di andare a espletare questo ulteriore cerimonia. La stanchezza però è talmente eccessiva che non riesco a svegliarmi del tutto, così mi sdraio sul divano e con un occhio semiaperto provo a scartare i regali. Apro quello di mio fratello. Non vedo bene ma quello che vedo mi sembra un orrenda cravatta a pois, una di quelle talmente brutte che nemmeno il professor Cospito oserebbe mettersi. Troppo sonno per mandarlo a quel paese, alzo il pollice e abozzo un sorriso. Tocca al regalo di mia sorella. Lo apro. Forse ciotoline stile giapponese…Pezzi di merda, ho cucinato un pomeriggio per essere criticato nel cibo e farmi regalare delle cose di così dubbio gusto?! Aah, troppo sonno. Voglio dormire e così faccio. Sono l’una e trenta di notte e la vigilia è passata. Come diceva mia nonna: “anche questa è fatta”.

Come sto bene sotto il piumone. Guardo la sveglia per sapere l’ora. Sono le nove del 25 dicembre 2006. E’ natale, ancora. Stavolta gli ospiti arriveranno per cena, così sono libero per tutta la mattina. Si tratta di una finta libertà quella della mattina del 25 dicembre, perché tutti sanno che bisogna fare una cosa: gli auguri. E così nell’arco della mattina penso a cosa dire, al modo meno impersonale possibile di fare gli auguri. Tutto questo, unito al tempo perso per scrivere i messaggi mi porta via due ore e trenta. Al ventesimo sms mi rendo conto di quanto godano i dirigenti delle grandi compagnie telefoniche. A natale nasce Gesù, e assieme a lui il profitto capitalista.
Troppo stanco e avvilito per cucinare anche a pranzo, mi metto d’accordo con mamma e sorella per mangiare il cumulo di avanzi del giorno prima. Mia madre continua a criticare il sugazzo, io continuo a pensare di farle mangiare l’anno prossimo nel peggior ristornate cinese di Pavia.
Alle 5:30 del pomeriggio incomincio a cucinare. Ancora una volta mi tocca fare anche i piatti pensati dagli altri. Alle sette di sera ho tutto sotto controllo. I piatti sono nel forno a scaldarsi, la tavola è bandita e questo, grazie a Dio, è l’ultimo giorno di preparativi.
Alle 20 arriva mia sorella, la grande, con figlia e compagno.
“Cento di questi giorni” mi dice Furio (il ragazzo di mia sorella), cercando di farmi gli auguri di Natale.
Penso a dover sopportare non cento ma solo un altro di questi giorni…avvilimento.
“Grazie ma se dovesse capitare penserei seriamente al suicidio”
Al contrario di mio fratello, mia sorella Chiara è molto precisa ed educata. Si rimane a tavola e si chiacchiera in maniera decente. Alle 22 e trenta se ne vanno. Ringraziamo per essere venuti e infine io e mia madre sparecchiamo tutto.
Alle 23 sono in camera e penso alle pile di piatti ancora da lavare e alla torre di cibo avanzato.
Si dice che a Natale si è tutti più buoni, io so solo una cosa, cucinare per i parenti non solo non ti rabbonisce ma ti fa pensare alla violenza, quella pura e incondizionata.
Buon natale a tutti

giovedì 21 dicembre 2006

Considerazioni consequenziali: risposta a Vlad tepes



Mi sento in dovere di chiarificare ulteriormente il significato di alcune mie affermazioni contenute nello scritto “La costituzione formativa senza un cammino processuale”. Il commento lasciato da Vlad Tepes e alcune mie successive meditazioni mi spingono a cadere più nel profondo, toccare l’abisso e collegare i vecchi concetti a dei nuovi concetti. Prima però sarà opportuno rispondere al caro amico Vlad. La mia argomentazione sarà triplice perché triplice è stata la sua obiezione.

La domanda esistenziale non è la soluzione di un rompicapo perché rompicapo non v’è

Vlad afferma che la domanda esistenziale può essere posta per motivi differenti rispetto all’infelicità. Un motivo, dice Vlad, può essere la soluzione del rompicapo. E’ questo il caso dello scienziato che di fronte al mistero della natura cerca spiegazioni scientifiche. L’attività della comunità scientifica può quindi essere considerata come uno sforzo intellettualistico finalizzato alla risoluzione del rompicapo.
“Che senso ha la vita? E’ questo quello che io ricerco”
Tutto questo è corretto nel caso del processo di funzionamento della scienza, il problema però è che la domanda esistenziale non è una domanda scientifica.
La domanda esistenziale non si basa su dati sensibili e soprattutto non può essere verificata empiricamente.
La domanda esistenziale non ha una struttura per cui da X ne deduco Y e quindi concludo Z. Nella domanda esistenziale Z non si trova. La domanda esistenziale non è la soluzione di un rompicapo perché non c’è nessun rompicapo, non c’è nessuna conclusione, nessuna Z. La domanda sul senso della vita è un enigma, una domanda senza risposta, anzi, la cui risposta è contenuta nella sua assenza. E’ costitutiva del senso della vita l’assenza del senso della vita, ma questa assenza non può essere considerata come la soluzione del rompicapo. Il rompicapo non v’è, v’è solo l’enigma.

Il risveglio implica una caduta

La domanda sul senso della vita è anche la domanda del risvegliato e non solo dell’infelice (Vlad). E’ assolutamente vero, ma io non affermo il contrario. Quello che voglio farti capire, caro Vlad, è che il risveglio implica una caduta. Prima di salire in paradiso Dante deve “risvegliarsi” ma per fare questo deve “cadere”, vivere il male, sperimentare il dolore. L’anabasi presuppone la catabasi e la catabasi è dolore. Il risveglio implica una rivoluzione, epistemologica, gnoseologica, religiosa, sociale, esistenziale. Come disse Mao Tse-Tung: “La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza”.
Il risveglio è un atto di violenza, di dolore. Il risvegliato è sempre un ex-infelice, è sempre qualcuno che è caduto, che ha scavato e che alla fine risorge. Ma per risorgere è necessario essere infelice.
Quando Gesù il Cristo fu messo in croce venne fustigato, colpito al costato da una lancia, insudiciato con una pezza intrisa d’aceto, sassato, sputato e maledetto. Il dolore di Cristo è assoluto.
“Eli, Eli, lama sabachtani? – Signore, signore, perché mi hai abbandonato?”. “Padre, che senso ha questo dolore? Che senso ha vivere se si continua a sanguinare? Qual è il senso della vita?”
La domanda di Cristo è la domanda esistenziale. Questa domanda viene posta da Gesù nel culmine della sua sofferenza. Gesù è un infelice che chiede al Padre il motivo della sua sofferenza.

La domanda esistenziale è una domanda emotiva

Eccoci arrivati alla conclusione. La domanda esistenziale è una domanda emotiva che implica la sofferenza. Non è la meraviglia, non è il piacere intellettualistico di risolvere il rompicapo dei rompicapi, è l’infelicità che muove questa domanda. Questa domanda ci abissa, questa domanda è una caduta, è tenebra che apre alla luce, all’amore.
Nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana Schelling parla di Dio distinguendo in lui due momenti, il momento attuale in cui egli perviene all’esistenza, e un momento potenziale, fondamento di questa esistenza. Il fondamento per Schelling è tenebra, collera, inconscio. L’esistenza al contrario è luce, amore, conscio.
Proviamo ora a sostituire il discorso schellinghiano di Dio ad un discorso esistenziale e considerare i due momenti divini come momenti dell’esistenza. Da una parte abbiamo il fondamento dell’esistenza che è tenebra, perché vissuta nella caverna dell’ignoranza, che è collera, perché basata su felicità surrettizie, ed è inconscio, perché ingenua.
Dall’altra parte abbiamo l’esistenza, quella pura. Questa esistenza è luce, perché accecata dalla verità del risveglio, amore, perché basata su una felicità solida, e conscio, perché consapevole di se stessa.
Questi due momenti non sono scissi, come non è scissa la natura di Dio. La luce ha bisogno dell’adombramento e si apre solo in virtù della tenebra.

Dio solo – che è l’esistente medesimo – abita nella pura luce, poiché egli solo è per se stesso. (…) Tuttavia, non sapremmo che cos’altro potrebbe spingere l’uomo con tutte le sue forze verso la luce, più che la coscienza della profonda notte dalla quale egli è stato tratto dall’esistenza.

Quando Vlad dice “felicità e dolore sono legati e quindi per uscire dalla gabbia bisogna accettare entrambi, ovvero porsi al di sopra di entrambi” non sta facendo altro che esplicitare questo mio pensiero. Non stiamo dicendo cose diverse.
Quando Vlad dice “pensare che la domanda sul senso della vita sia da infelici è illuministicamente semplicistico” fraintende il senso puro del mio discorso. Spero che adesso il senso sia stato colto.

mercoledì 20 dicembre 2006

Tabù contro i potenti

Hanno provato a boicottarci, hanno provato a chiuderci, ci hanno cambiato indirizzo, impaginazione e stile ma noi siamo ancora qui. Tabù non si piega ai potenti.
Ecco quindi il nuovo indirizzo di Tabù. Come potete vedere non è cambiato molto rispetto all’altro. Oddio, francamente preferivo lo stile precedente ma alla fine questo è quello che passa il convento. Se qualcuno ha consigli da darmi ricordo la mia mail: danielefoti84@yahoo.it. Mi raccomando, non mi si invii ulteriore pubblicità zozza.
Finalmente riesco ad aggiornare il mio blog. A dire il vero questa sera ero intenzionato a fare dell’altro, i mie propositi erano di vedermi un film in dvd e aspettare che l’aspirina facesse il suo effetto narcotizzante per essere così cullato dalle ali di Morfeo. Peccato che il film abbia fatto cacare e l’aspirina non abbia fatto alcun effetto. Così ora mi ritrovo a scrivere per il mio caloroso pubblico di intellettuali, di baronetti e piccoli lord.
Colgo l’occasione per rispondere a un po’ di mail che mi sono arrivate in occasione del mio blog.
Mi scrive Gianni da Firenze:

Caro Esteta, il tuo blog non è conforme ad una linea logica godeliana. Trovo i tuo scritti confusi e metafisici, manchevoli soprattutto di chiarezza putnamina. La struttura del sito dovrebbe essere del tipo: ∑∞ (x, Y) [ (x2,yz)<> ]

Caro Gianni, se vuoi chiarezza, noia e banalità leggiti pure Inchiostro, cosa perdi tempo a leggere i miei scritti.

Da Pavia Mestruina mi domanda:

Caro esteta, devi sapere che ho un flusso abbondante e così ogni volta che ho le mestruazioni lascio un mare di sangue per i bagni dell’università. Cosa posso fare?

Cara Mestruina, il consiglio che ti posso dare è di utilizzare un doppio strato di assorbenti. Qualora non funzionasse prova con il triplo strato, con il tetra-strato, insomma, imbottisci la patta e soprattutto evita di fare danni nei bagni dell’università. Non si può andare in bagno e trovare il mar rosso, se permetti fa schifo.

Mi scrive pure il Nano malefico:

Ciao Dani, ho visto il blog, che scemo che sei, ma che cazzo ti passa nella testa eh?
:) :-/ :-O :) =; =(( /:) <:-P #-o :P 8- :D :( :o) =)) B-)

Ma poorca vacca! Ma che diamine sono ste cose? Parentesi, due punti, ma ti sei fottuta il cervello? Ancora non riesco a capire ste cose…ma che senso hanno ste faccine? Vuoi esternare il tuo stato d’animo? Ma allora parla! Perché la gente non sa più parlare? Ormai è tutto abbreviato: cmq nn, dom, d6, risp etc. Ma come diavolo parlate voi giovani? Avete anche il cervello abbreviato?
…Siamo morti e questo è solo l’inferno…

L'aumento di conoscenza può nullificare la condizione di malafede?



L'essere umano non è solo l'essere per mezzo del quale compaiono nel mondo della negatività, è anche l'essere che può prendere atteggiamenti negativi nei confronti di se stesso1

Nell'opera L'essere e il nulla Sartre parla di “prendere atteggiamenti negativi nei confronti di se stesso”, questa particolare condizione verrà chiamata da Sartre con il termine malafede. Ma che cos'è esattamente la malafede, quali sono le sue caratteristiche peculiari? Possiamo dire che la malafede è quella condizione in cui gli esseri umani rinunciano alla propria libertà. In questa condizione la libertà è gettata via e la responsabilità è esternalizzata: l'uomo prende atteggiamenti negativi verso se stesso.
Facciamo alcuni esempi chiarificativi. Pensiamo ad una persona che “gioca a fare” l'intellettuale ma al tempo stesso non si sente affatto un intellettuale, oppure possiamo pensare ad una persona anziana che “gioca a fare” il ragazzino. In tutti questi casi siamo in presenza di malafede.
In questa condizione si stabilisce una dicotomia tra “l'essere-per-se” (io non penso di essere un intellettuale) e “l'essere-per-gli-altri” (io gioco a fare l'intellettuale).
In malafede quindi ogni persona, oltre ad essere ciò che è, è anche ciò che non è e che “gioca a fare”.

Io sono nel modo di essere ciò che non sono.2

Nell'esempio della persona che gioca a fare l'intellettuale questa è sia la persona che crede di non essere un intellettuale (ciò che è) e sia la persona che esibisce la sua intellettualità (ciò che non è). Questo “ciò che non è” è l'essere-per-altri, è il ruolo che la persona sceglie di rivestire. Questa adesione ad un ruolo però rappresenta un indebolimento della possibilità di libertà e di scelta dato che nell'interpretare un ruolo obbediamo a pesanti limitazioni esterne. L'intellettuale in malafede infatti deve obbedire ai criteri e ai limiti della intellettualità, per esempio l'abilità oratoria, una vasta conoscenza, un occhio analitico etc...
Abbiamo anche detto che questa interpretazione di ruoli esibisce una dualità tra il nostro essere-per-se e l'essere-per-gli-altri. Noi nella condizione di malafede indossiamo una maschera, interpretiamo un ruolo, “giochiamo a fare”, per dirla semplicemente esibiamo altri se.
Il tema degli altri se è ricorrente nella letteratura italiana del Novecento, basti pensare a Pirandello.
Nella produzione teatrale e letteraria di Luigi Pirandello il concetto di malafede è sostituito da quello analogo di “forma” e di “maschera”. La maschera pirandelliana è la rappresentazione più evidente della condanna dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall'esterno, sulla base di convenzioni che reggono l'esistenza della massa. I personaggi di Pirandello non esibiscono una galleria di caratteri bensì una pluralità di se, sono personaggi con pluri-personalità. In loro ciò che colpisce il lettore non è la descrizione fisica-caratteriale ma la coesistenza di una molteplicità di vite in un unico corpo.

Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo che potessi riconoscere come mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente mi appariva mi parve estranea a me.3

Così parla il protagonista della famosa novella pirandelliana La carriola. In questa novella un uomo apparentemente normale prende coscienza della sua “pluralità. Nella sospensione vaga e strana della realtà quotidiana, egli intuisce, che la lontano preme ancora e ha trovato il modo di affacciarsi alla sua coscienza una vita mai nata, che sarebbe potuta essere la sua e comprende che la sua forma attuale è solo una delle molte possibili. L'uomo è sartrianamente in malafede. C'è però una differenza sostanziale tra la condizione di malafede di Sartre e la poetica della forma di Pirandello. Entrambi condividono una frattura duale tra una realtà soggettuale che è la particolare visione che ha il personaggio della realtà, e una realtà oggettuale, esterna, fissa ed immutabile. Per i personaggi di Pirandello non esiste una realtà oggettuale, esiste solo una realtà soggettuale che, a contatto con la realtà degli altri, si disintegra e si frantuma. Ciò avviene per il protagonista del romanzo Uno, nessuno e cento mila, che scopre all'improvviso di non essere più quello che credeva dal momento in cui la moglie gli dice che ha il naso che pende verso destra. Questa frase porterà il protagonista a comprendere che gli altri lo vedono in modo diverso da come lui si era sempre visto. Abbiamo quindi:

1. come la realtà è vista dal personaggio
2. come la realtà esterna si impone al personaggio
3. come il personaggio crede che gli altri vedano la realtà

E' proprio questa triplicità che distingue Pirandello da Sartre. La condizione di malafede sartriana presuppone solamente il punto 1 (realtà soggettuale) e il punto 2 (realtà oggettuale), e quindi una duplicità. In Pirandello la frattura è triplice, il personaggio si rende conto che la realtà non è ne Una (realtà soggettuale), ne Nessuna (realtà oggettuale che in malafede non si da) bensì Centomila.
La nostra perdita di libertà è esibita agli altri che sono ingannati dalla nostra duplicità con la conclusione che sia la nostra dignità che quella degli altri vengono minati. In questi termini sembra che ci sia una correlazione tra la malafede e il concetto marxiano di falsa coscienza. L'effetto della limitazione della libertà da parte della malafede può a sua volta facilitare l'oppressione proveniente dall'esterno e rendere un individuo più vulnerabile ad essere sottomesso. Facciamo un esempio chiarificativo. Pensiamo al caso di un uomo affascinate che sta insieme ad una donna molto ricca. L'uomo sta insieme alla donna solo perché interessato al suo patrimonio, non tiene assolutamente conto dei sentimenti che la donna prova verso di lui. Allo stesso tempo la donna “gioca a fare” la futura moglie di un uomo affascinante: è in malafede. Così abbiamo una donna che rinuncia alla propria responsabilità esponendosi al rischio di essere “sottomessa” da parte dell'uomo affascinante (cattiva coscienza). Le persone in malafede quindi causano danni non solo verso se stessi ma anche verso gli altri perché esibiscono una immagine distorta e ingannevole di loro stessi.
Il tema della malafede si collega anche a quello della privacy. In che senso privacy e malafede sono collegati? Un individuo monitorato è maggiormente esposto al rischio di tradirsi e ad apparire come falso e innaturale e tutto questo ha degli effetti sull'atteggiamento degli altri. Questo genere di autoinganno condivide una cosa con a malafede ossia l'esternalizzazione della responsabilità e della libertà e la diminuzione della dignità. Quando siamo monitorati non ci riconosciamo come agenti liberi, di conseguenza la necessità di non essere monitorati si collega con la necessità di rispettare le persone come agenti liberi.
Ma perché attiviamo la malafede? Perché rinunciare alla propria libertà e responsabilità? Perché il contrario sarebbe intollerabile.

Io non sono in grado di assumere l'essere.4

L'uomo non è in grado di assumere l'essere, non riesce a sopportare l'angoscia e la sofferenza. E' per non essere oppressi dall'ansia e dall'angoscia che le persone rinunciano alla propria libertà mettendosi così in condizione di malafede. L'uomo che “gioca a fare il cameriere” sa bene cosa significa alzarsi presto, servire ai tavoli, avere le ferie etc. Il cameriere sceglie di “giocare a fare” il cameriere perché così la sofferenza e l'angoscia che prova vengono esternalizzati al ruolo che interpreta, liberandolo da un peso troppo opprimente.
La malafede ha quindi una positività, ossia quella di mantenere un grado accettabile di felicità.
Questa incapacità di tollerare l'ansia e angoscia avviene a causa di una mancanza di informazione e di conoscenza.

E' la mancanza di conoscenza che ci porta a guardare le cose come distanti ed oppressive.5

Il cameriere che “gioca a fare” il cameriere non conosce veramente la maggior parte dei concetti e giudizi come il servire ai tavoli, avere le ferie etc. A causa di questa mancanza di informazione il cameriere rinuncia alla propria libertà e responsabilità. Se il cameriere conoscesse i concetti e i giudizi di cui quotidianamente ha a che fare forse non rinuncerebbe così facilmente alla propria libertà.
Possiamo così riassumere: la malafede è quella particolare condizione in cui le persone, aderendo ad un ruolo, rinunciano alla propria libertà e gettano via la responsabilità. Nella condizione di malafede si esibisce un falso-sé che inganna chi ci sta accanto esponendolo/ci al rischio di essere sottomesso/i (falsa coscienza). Privacy e malafede sono collegati: l'autoinganno dell'individuo monitorato condivide con la malafede l'esternalizzazione della libertà e l'eliminazione della responsabilità. La condizione di malafede è attivata per incapacità di sopportare angoscia e sofferenza. Il vedere le cose come opprimenti e angoscianti è dovuto ad una mancanza di conoscenza. Di conseguenza l'aumento della conoscenza può nullificare la condizione di malafede.


NOTE


1 J. P., Sartre, L'etre et le Nèant, Librairie Gallimard, Paris, 1943, trad. it. Di G. Del Bo, a cura di F. Fergnani, L'essere e il Nulla, Net Editore, Milano, 1995, p. 82

2 J. P., Sartre, L'essere e il Nulla, cit., p. 96

3 L., Pirandello, La Carriola, Novelle per un anno, Feltrinelli, Milano, 1966

4 J. P., Sartre, L'essere e il Nulla, cit., p. 97

5 L, Magnani, Conoscenza come dovere, Associated Internetional Academic Publischers, Pavia, 2005, p. 117

Recensione Marie Antoinette



Come può un film in costume ambientato nel Settecento avere come colonna sonora brani del mondo rock? Semplice, non si tratta di un film in costume. Marie Antoinette è un film atipico. E’ un film in costume ma non è un film in costume, è un film ambientato nella Francia settecentesca di Luigi XVI ma non è un film storico. Marie Antoinette non è neppure un film su Marie Antoinette. Sofia Coppola si serve di una figura storica per continuare la sua descrizione del mondo giovanile femminile. Dopo aver raccontato la sofferenza adolescenziale di cinque giovani suicide (“Il giardino delle vergini suicide) e dopo aver descritto il senso di solitudine e spaesamento di una giovane sposa americana in Giappone (“Lost in traslation”) Coppola passa a raccontarci la storia adolescenziale della più famosa regina di Francia. Ma Maria Antonietta non è descritta come figura storica, la cornice storica nel film della Coppola è totalmente irrilevante. La giovane regina di Francia è la “Silvia” della Coppola, una metafora, nulla più, dei turbamenti, delle fragilità e della spensieratezza della giovinezza. Marie Antoinette non parla di Maria Antonietta, parla dell’adolescenza, di un essere giovani e fragili che non cambia nel tempo. Eccoci arrivati dunque al perché Coppola utilizza come colonna sonora brani rock. Il rock è la musica dei giovani, della ribellione, degli sconvolgimenti. Se si potesse trasformare in musica la condizione adolescenziale quello che verrebbe fuori sarebbe una tosta canzone rock. Ma c’è un altro motivo per cui Sofia Coppola ha deciso di utilizzare il rock, strettamente connesso al motivo per cui Marie Antoinette non è un film in costume. Il rock serve ad attualizzare la cornice storica. Il film è ambientato nel Settecento ma l’occhio con cui è descritto è totalmente anacronistico. Gli abiti, i dolci glassati, le acconciature, tutta la moda visiva non creano un senso di distanza tra il nostro mondo e il mondo francese del diciottesimo secolo. Si può anzi dire che in realtà ciò che si vede nella Versailles dipinta da Coppola è un senso di assoluta modernità, quasi futuristica.
Con Marie Antoinette si chiude un altro capitolo dell’essere giovani e femmine secondo la talentuosa Sofia Coppola. Dalla giovinezza del passato anni settanta raccontata ne “Il giardino delle vergini suicide”, dopo quella del presente in “Lost in Traslation”, Coppola conclude questa trilogia in maniera paradossale, raccontando la giovinezza del futuro utilizzando una figura storica del passato, da qui la più grande atipicità del film.
A questo proposito vorrei sottolineare alcuni elementi di continuità adolescenziale tra il passato (attualizzato) e il nostro presente. In primis i dolci. Torte glassate, biscotti, bon bon al cioccolato, manicaretti iperzuccherini, tutti strabordanti dentro la reggia di Versailles. I dolci sono l’esempio dell’adolescenza, del periodo in cui si predilige il gusto dolce rispetto a quello salato. Ma il dolce rinvia anche ad una certa frivolezza, tipica della giovinezza.
Un altro elemento di continuità è rappresentato dalla mania verso le scarpe. Significativa è la scena in cui Coppola ne mostra a ritmo febbricitante la moltitudine che la giovane regina sceglie e indossa per le varie occasioni di corte.
Altro elemento di modernità è la fuga per la festa. Maria Antonietta e il principe Luigi XVI decidono di fuggire dalla corte di Versailles per andare alla festa in maschera di Parigi. Questa e un'altra che poi dirò sono le due scene madri del film. Qui il senso del moderno e del futuro è totale, qui la musica rock si fa più rock, qui l’abito non si fa più storico ma punk. Scappare per andare a divertirsi, ieri a Versailles e oggi in tutto il mondo. Party americano, festa in maschera parigino, birra a go-go, champagne a prolusione, eppure tutto nella forma rimane identico.
L’altra scena madre è rappresentata dall’andare a vedere l’alba. Nel giorno del suo compleanno Maria Antonietta vaga assieme ai suoi amici nel verde giardino di corte. La scena è pura. I colori, le movenze, le parole, in questa scena lo spettatore non vede Maria Antonietta, vede se stesso, il se stesso di allora, di quand’era giovane.
Proprio perché Sofia Coppola decide di non fare un film storico che tutto è così attualizzante, moderno, futuristico, perché l’adolescenza non è storica è senza tempo, al di là del tempo, sempre presente, sempre distante.
Buona Visone.

Recensione Four Brother



Quando nel 1965 uscì il film I quattro figli di Kate Helder nessuno si sarebbe immaginato che nel 2005, a distanza di 40 anni, un regista di nome John Singleton, già famoso per aver diretto film come come Shaft e 2 fast 2 furious, avrebbe ripreso la stessa tematica rapportandola nella società americana odierna. Il risultato è singolare. Quello che avrebbe potuto sembrare una mossa azzardata si rivela vincente. E sì perché, cosa bizzarra, le tematiche western sono attualissime.
Alla morte di Evelyn Mercer, uccisa a fucilate durante una rapina ad un supermarket, Bobby, Angel, Jack e Jeremiah, i quattro figli adottati da Evelyn, si riuniscono per commemorare la morte violenta della madre. Inizierà presto un proposito di vendetta. Ecco il primo tema western rapportabile al mondo attuale, la vendetta come principio pratico di giustizia. Così ieri nei ranch, così oggi nella Detroit di Four Brother: fare giustizia a qualunque costo. Il mondo si ritrova ancora oggi dominato dal mantener fede al codice d’onore piuttosto che dal codice di legge. Lo sceriffo è sostituito dalla vittima e il crimine rimane sempre lo stesso: l’assassinio. Singleton ricrea così un perfetto parallelismo, facendo capire allo spettatore quanto l’America di oggi sia ancora inserito nelle stesse dinamiche di un secolo e passa fa. Ciò che cambia è solo l’impronta estetica. Le colt del western vengono sostituite da fucili automatici, il sole torrido dal gelo di una Detroit d’inverno, gli inseguimenti a cavallo da spettacolari inseguimenti automobilistici, i duelli vis à vis da sparatorie metropolitane, il tutto sorretto da una colonna sonora trascinante, che spazia dai Jackson 5 a Marvin Gaye e che strizza l’occhio al mondo afroamericano dei ghetti. Ritmo trasciante, dialoghi brillanti e un modo interessante di vedere la realtà di oggi, tutto questo è Four Brother

Recensione Babel



Quattro realtà diverse e apparentemente distanti tra loro si troveranno unite nel filo dell’esistenza tracciata da Inarritu. Storie di dolore, di solitudine e di morte vengono così intrecciate nell’ultimo capolavoro del più espressivo cineasta messicano vivente, Alejandro Gonzalez Inarritu.
Una coppia americana segnata dal dolore della morte del loro figlio, una famiglia marocchina, una badante messicana e una famiglia giapponese, tutti accomunati dal senso tragico del mondo. Inarritu traccia così la sua visione del mondo, cruda, desolante e violenta, fatta di contrasti e di sbagli destinati a stravolgere la stessa vita di un uomo.
E’ la stupidaggine che porterà i due fratelli marocchini a sparare contro il pullman turistico e a ferire quasi mortalmente la giovane americana (interpretata da una strepitosa Cate Blanchet). E’ ancora lo sbaglio che porterà la badante messicana a fidarsi di suo nipote, ubriaco e incosciente. La stupidaggine come motore propulsore di danni irreversibili, piccole cause per grandi effetti (“Non ho fatto una cosa cattiva, ho fatto solo una cosa stupida” come dice la baby-sitter ai due bambini che accudisce). Ma in questo teatrino dell’incoscienza tutti vengono assolti, non esistono assassini, siamo tutti delle vittime, così i due fratelli marocchini così la badante messicana. Agiti e non agenti, passivi e inermi di fronte all’impeto del male che copre tutta la realtà. Non c’è nessuna volontà di ferire, di far male, la sofferenza è ineluttabile in Babel.
La sofferenza è il vero protagonista del film. Una sofferenza tragica, imprevista, senza senso che trascina tutti nel baratro della solitudine perché se è vero che tutti soffrono è anche vero che tutti noi soffriamo in solitudine. In questo senso sono significative almeno due scene del film: la prima inquadra un Brad Pitt, stravolto dall’incidente capitato alla moglie, che chiama a casa per sentire la voce dei suoi figli. La macchina da presa si allontana e l’attore rimane solo, in piedi a piangere appoggiato al telefono a muro. La seconda scena riguarda la ragazza giapponese , nuda e sola cha abbraccia suo padre nella visione di una Tokio notturna che non dorme mai.
Ed è proprio la figura della giapponese che commuove di più. Una ragazza, un’adolescente costretta a fare i conti non solo con i classici problemi adolescenziali ma anche con il proprio handicap, il sordomutismo. Una ragazza mai accettato dai suoi coetanei, sempre in imbarazzo per i propri limiti fisici, sola perché nessuno accetta la diversità. Una ragazza che non chiede altro che essere amata (significatica a questo proposito la scena in cui lei cerca di baciare il suo dentista), che non chiede altro che un contatto, semplicemente per dimenticare di essere diversa, di essere sola, senza scuse.
La sofferenza e la solitudine fanno da elementi unificatori della diversità etnica e geografica dei vari personaggi. Il marocco, gli Stati Uniti, il Messico e il Giappone, quattro paesi distanti tra loro si avvicinano per la stessa esperienza del reale: il dolore e la solitudine. Da qui il significato del titolo, Babel. La torre di Babele è per Inarritu la metafora di una diversità apparente, di distanza vicine. Tutti parliamo lingue diverse ma tutti ci ritroviamo a parlare con le parole della sofferenza. Babel non è un film sull’incomunicabilità del mondo post-moderno, Babel è il film sulla comunicabilità attraverso il linguaggio del dolore. C’è una visione assolutamente universalistica che traspare nel film che non può venir capita se si pensa a questo come un ennesimo prodotto artistico sulla difficoltà di comunicare.
Sofferenza e solitudine in contrasto con la voglia di essere amati e di non essere più soli. Il polo del reale e il polo del desiderato. Due estremi, due contrasti che si scontrano in una lotta manichea. La stessa struttura del film è basata sui contrasti, sia uditivi che visivi. Nel primo caso segnalo solo la scena in cui l’urlo di dolore di Cate Blanchet viene “spezzata” dal silenzio della sordità della ragazza giapponese. Nel secondo caso voglio segnalare il contrasto che gioca la visone di un Marocco puro e desolato associato alla visone di una Tokio frenetica e ipertecnologica.
Ultimo, ma non per importanza, la musica di chiusa scelta da Inarritu, Bibo no Aozora scritta e musicata da Ryuichi Sakamoto. Una canzone strumentale in cui le note del pianoforte scivolano malinconicamente accompagnate dal lamento degli archi, come a voler essere paragone della stessa vita dei personaggi del film.
Un film struggente, malinconico, a tratti deprimente ma allo stesso tempo delicato e speranzoso, sicuramente un film che lascia il segno. Buona visione

La costituzione formativa senza un cammino processuale



L’altro ieri ho trovato in camera un piccolo aggeggio capace di potenziare e tonificare la muscolatura mediante sollecitazioni elettriche. Questo miracolo della scienza si chiama Testmed e ha la capacità, almeno presunta, di far ottenere dei risultati senza l’apporto di fatica. La macchina lavora al tuo posto. Subito incomincio a leggere le istruzioni d’uso (sono uno dei pochi che da seguito a queste cose) e più leggo e più mi accorgo di una cosa: la costituzione formativa passa senza un cammino processuale. L’idea di fondo è che il risultato sia raggiungibile indipendentemente dal percorso, processo, che porta al risultato stesso. Mi spiego. Di solito durante l’iter scolastico tutti gli studenti fantasticano su una cosa. Si sta sdraiati sul letto a leggere la centesima pagina di storia medievale e l’immaginazione corre subito all’idea di poter imparare tutto senza fatica. Un idea sarebbe la fabbricazione di pillole dello studio. Ecco quindi l’ultimo prodotto da farmacia. La pillola rossa per la matematica, quella verde per la storia, quella gialla per l’italiano e via fino a coprire tutti i colori dell’arcobaleno e tutte le materie insegnate. Chi non ci ha mai pensato? Eppure una domanda rimane aperta: “siamo sicuri che il risultato che raggiunge chi studia alla vecchia maniera e chi secondo il metodo della pillola sarà uguale?”
Il modo più semplice per rispondere a questa domanda è porsi un'altra domanda: “Cosa significa studiare?” Si tratta di una domanda non semplice che ci porterebbe inesorabilmente a scontrarci con le più bizzarre quanto stupide teorie pedagogiche e psicologiche. Rimaniamo a un livello più sensato e cerchiamo di sostituire questo problema in questi termini. Se esistesse il teletrasporto e fosse possibile ridurre a zero il tempo di viaggio, cosa rimarrebbe del viaggio? Inoltre, viaggiare a tempo zero e viaggiare secondo un cammino temporale è la stessa cosa? Come si può capire si tratta nella forma della stessa domanda postaci inizialmente. Stavolta però siamo più facilitati. Possiamo infatti domandarci che cos’è il viaggio e tutto senza tirare in ballo teorici o teorie, rimanendo sempre in un livello di sensatezza.
Che cosa significa dunque viaggiare? Il viaggio è il processo, il cammino che ti porta a destinazione. Ciò che conta nel viaggio non è la meta, è il cammino che ha portato a ciò. Il termine viaggio viene dal latino viaticus che sta ad indicare la via. Da qui il senso di alcune espressioni, come “viaggio spirituale”per indicare non il risultato spirituale raggiunto ma il cammino intrapreso dallo spirito.
Si può subito obbiettare che si tratta di un parallelismo azzardato, che alla fine studiare è diverso da viaggiare. Si tratta però di un obbiezione lecita nella forma ma insensata nel contenuto. La vera domanda che bisogna porsi è se la costituzione formativa possa realmente passare senza un cammino processuale. L’esempio del viaggio smentisce chiaramente, ma questo è solo uno dei molti esempio di smentita. Possiamo anche pensare al body building. Nell’attività fisica dell’atleta l’allenamento è costitutivo del suo essere atleta. Se si potesse mettere su massa muscolare senza un cammino di sforzo si otterrebbe soltanto una persona fisicamente ben messa ma senza l’indole dell’atleta, cioè costanza, persistenza, abnegazione etc. L’atleta così “costruito” sarebbe cioè forte nel fisico ma debole nel carattere.
Ma allora perché si è cercato di eliminare il processo? Semplice, per eliminare il dolore, la fatica, con la sola conseguenza di aver costruito un mondo ancora più doloroso. Come disse una volta il mio amico Bruno: “Il dolore senza dolore genera dolore”. Eliminando il dolore si è creato un nuovo tipo di dolore, un dolore più subdolo, che accenna ma rimane nascosto: lo stress.
Perché si è così stressati oggi giorno? Eppure viviamo in un epoca in cui la tecnologia ci ha “liberati” dal “tempo sprecato”, in cui tutto è razionalizzato, particellizzato. Lavoriamo con meno fatica, ci muoviamo con meno fatica grazie ai veicoli motorizzati, studiamo con meno fatica, lo stesso vivere non è più faticoso, da qui la stessa fatica del vivere odierno. L’eliminazione della fatica ha portato ad una nuova forma di fatica.
Ne Il sistema della dottrina morale Johann Gottliebb Fichte scrive:

Che io mi ponga come attivo, non vuol dire affatto, nello stato di coscienza che si deve indagare, che io mi attribuisca un’attività in generale, bensì che io mi attribuisca un’attività determinata, questa appunto e nessun’altra.
Che significa ora un’attività determinata, e come diviene essa tale? Semplicemente per il fatto che ad essa si contrappone una resistenza e si contrappone mediante un’attività ideale, pensata e immaginata come ad essa contrastante. Dove e quando tu scorgi attività, scorgi necessariamente anche una resistenza; poiché altrimenti non scorgeresti alcuna attività.

Che cosa vuol dirci Fichte? Fichte vuole farci capire come l’agire debba passare attraverso un oggetto d’azione che contrasta l’azione stessa. L’attività cioè deve essere esercitata su qualcosa. Dal contrasto di questa “cosa” deriva lo sforzo con cui l’azione oppone se stessa a una resistenza. In parole semplici Fichte costruisce una morale della fatica, un’etica dell’azione in cui il dovere dell’uomo consiste nell’agire e il male, morale, nell’accidia e nella pigrizia.
La società moderna è fichtianamente malvagia perché eliminando il processo ha privato il mondo della sua etica, del suo senso. Lo stress nasce appunto da questa perdita di senso per cui una cosa diventa facile e allo stesso tempo non interessante, noiosa e allo stesso tempo dolorosa . E più cerchiamo di eliminare il dolore e la noia e più questi ricompaiono nella veste di “noia trasgredita”. Diventiamo trasgressivi per essere meno noiosi, per annoiarci meno senza capire però che la stessa trasgressione richiede sempre un “ancora e più ancora” e così oltre alla noia diventiamo succubi dell’oltre, ci addoloriamo. Ma questo dolore domanda un senso. Dove, dove? Questo senso non viene più cercato in noi ma fuori di noi. Ecco la nascita dei test. Dimmi cosa rispondi e ti dirò chi sei, sei la risposta che dai, il tuo senso è fuori di te ed è chiaro. Se prima eravamo monadi, senza porte e ne finestre, ora siamo noi stessi porta e finestre, esterni senza interno.
Non c’è più fatica, non c’è più sforzo, la vita stessa è tremendamente facile, non è più vita. L’unico modo per restituire il senso al mondo è vivere filosoficamente. La filosofia è infatti la via della fatica. Hegel scrisse che l’attività del filosofo consiste nel fare i conti con la fatica del concetto. Da ciò nasce la disperazione dovuta al crollo di ogni certezza. Ciò che appariva chiaro diventa complesso e difficile da comprendere, faticoso. La filosofia non è un atto d’amore, è un atto di vita. La vita è tale solo se la si vive con coscienza, con dolore, con fatica. La vita diventa tale solo se ci si incammina verso di essa, solo grazie al processo.
Spesso ci si domanda: “Qual è il senso della vita?” Ciò che colpisce di questa domanda non è la risposta che si può dare, ma è il motivo per cui la si pone. La domanda sul senso della vita è la domanda degli infelici, di chi vive e non trova il senso di questo; chi è felice di vivere perché mai dovrebbe dubitare della sua felicità? Gode e basta.
Ma questa è anche una domanda retorica. Chi domanda il senso della vita non lo fa cercando una risposta, in cuor suo sa bene che non c’è risposta, che non c’è un senso, lo dice come il disgraziato che chiede se c’è giustizia nel mondo. E’ una domanda tristemente ironica.
L’unica risposta che sono riuscito a dare è questa: non domandiamoci il senso della vita, domandiamoci solamente se una vita senza dolore e fatica possa essere considerata sensata.

Storia di una rivista abortita



Un giorno qualunque nel solito bar eletto a ritrovo ufficiale dalla nostra cerchia di studenti di filosofia dopo le lezioni.
“…ma poi devi sentire come motivano la loro posizione questi vegetariani, che gli animali hanno l’anima…”
Questo è Daniele che sta’ di fronte a me con il suo naso aquilino monumentale mentre spiega, tra gli insulti che fioriscono abbondantemente ai bordi del suo discorso, che alla lezione di bioetica si era parlato di vegetarianismo.
“Ma è proprio degli esseri superiori mangiare la carne.
Ma hai visto come sono messi questi vegetariani?
Una tristezza!
Sono malati, non si reggono in piedi, fanno fatica a vivere.
E per forza, a forza di mangiare le verdurine.
Mai una fetta di arrosto, una cotoletta…”
“Ma le uova e il formaggio almeno possono mangiarli?” chiede Francesco di fianco a me, mentre il suo alito rischia di uccidermi.
“Ma non lo so, perché i vegetariani puri hanno una serie di divieti tutti strani…”
Il Luca che non parla mai, ma se ne sta’ minuto minuto nel suo angolino ad ascoltare tutto con attenzione interviene dicendo qualcosa di intelligente, ma non mi ricordo cosa, forse proprio perché era troppo intelligente.
Ma Daniele non si lascia intimorire e continua, tutto preso dal suo turpiloquio ormai tutto privato, come in estasi: “Ecco, la radice noumenica della realtà non è lo Spirito come diceva Hegel, ma è la Trippa.
La Trippa” (leccandosi i baffetti) “la Trippa è la vera radice della realtà.
Infatti è esterna ed interna allo stesso tempo.
È esterna in quanto piatto da mangiare ed è interna in quanto apparato digerente che elabora tale cibo.
Nel momento in cui la mangi la trippa per-sé diventa trippa in-sé, dunque si può dire che la stessa sostanza che unisce soggetto ed oggetto, quindi la realtà nella sua totalità assoluta è la Trippa Assoluta che è immanente e trascendente nello stesso momento.
Ma ci pensi, tutta la vita senza trippa….”
E così di seguito.
Mentre il suo vaniloquio si va spegnendo arriva la cameriera del bar, una biondina niente male (anche se non dovrei dirlo e nonostante abbia i suoi anni), che ci riconosce e ci saluta prendendo le ordinazioni.
Dal momento che sono abitudinario da fare schifo, godo di un piacere perverso del fatto che si vada nello stesso bar dove ormai ci conoscono così bene che possiamo ordinare “il solito” come nei film, una cosa che mi ha sempre emozionato tantissimo.
Tranne per il fatto che Elisa deve sempre rompere questo incantesimo ordinando l’impossibile.
Eccola a dimenarsi sul menù del bar che per lei è enorme (sarà alta un metro e quaranta).
Gesticolando ed agitandosi in modo tale da allarmare la placida calma di Francesco, che, di fianco a me, comincia a grattarsi il barbone creando in poco tempo uno strato di forfora che assomiglia ad un piccolo monte innevato, anche se, vedendo come lo guarda Daniele, credo che a lui ricordi di più un pugno di parmigiano grattugiato.
Ad ogni modo, dopo aver seminato lo scompiglio e la disperazione in mezzo a noi quattro prevedibilissimi ed abitudinari, rovinandomi tra l’altro la mia scena da film “il solito, grazie” (con voce da duro) facendomi sentire tutto l’attrito tra come il mondo dovrebbe essere ed invece come tristemente è, si decide ad ordinare una cioccolata calda con una fetta di torta.
Poi, soddisfatta di avere attirato la nostra attenzione su di lei (sai che emozione) incomincia a blaterare qualcosa sul fatto che il suo ragazzo rubava i motorini.
“Eh si, ma che vuoi farci è colpa dell’ambiente che frequenti.
E anche del DNA.”
E qui salta fuori in Daniele che esclama con forza:
“Ma guarda che il DNA non esiste.
Possiamo dire che è una questione di indole.”
“Come non esiste” sbotta lei, profondendosi in esclamazioni gutturali, mentre cominciano a prepararsi strilli da bertuccia.
“Ma non puoi dire che non esiste!” (urlando).
Al che interviene la voce cavernosa di Francesco, con fortissimo accento bresciano: “Ma sì, è una convenzione, come i meridiani e i paralleli”.
“Ma i meridiani ed i paralleli non esistono.” dice Daniele “Io non ci credo”.
Di rimbalzo Francesco che con il barbone, la scarsissima igiene personale e l’accento terribile sembra sempre più un cavernicolo svegliatosi dopo un lungo letargo: “ Vabbè, non è che non esistono.” (dopo qualche suono gutturale di approvazione per la sua stessa frase e un paio di schiocchi di labbra per ordinare i pensieri e la faticosissima impresa si esprimerli vocalmente)
“ Non è che se non ci credi non ci sono… cioè”
Ma rimane a metà della frase accorgendosi della fatica titanica che per lui richiede la formulazione e l’ordinamento dei pensieri e soprattutto la loro vocalizzazione.
Non ho mai capito se questo fenomeno, del lasciare costantemente le frasi a metà, sia causato da una difficoltà nel mettere le mani nella materia aggrovigliata dei suoi pensieri (che se ha qualcosa a che fare con lo stato in cui si trova il luogo in cui vive è irrecuperabile) o l’incapacità di emettere suoni articolati in grado di esprimere tali pensieri, incapacità aggravata probabilmente dal fatto di portarsi dietro secoli e secoli di antenati costretti ad esprimersi con i quattro suoni animaleschi della lingua camuna, con il conseguente atrofizzarsi delle capacità vocaliche e linguistiche.
Ma a questo punto insiste Elisa: “ Ma ragazzi, non potete fare finta che la scienza non esista, non è che se voi fate finta che le cose non esistano queste non esistono davvero.
Il mondo va avanti.
Sono l’ambiente ed i DNA a causare le azioni dell’individuo.”
“Si, ma ad esempio mio fratello che ha il mio stesso DNA e vive con me è uno stronzo.” ribatte Daniele
“Ma comunque tu e tuo fratello non avete una vita proprio uguale.
Per quanto simile, ognuno vive in un ambiente diverso, fa esperienze differenti.
E comunque il DNA è una realtà, punto e basta.
Cavolo, è nelle molecole, esiste.
Cioè.”
Ed accompagna il discorso con dei gesti delle sue manine malefiche coperte letteralmente di braccialettini che tintinnano ad ogni movimento, rumore che ha la capacità di far infuriare Daniele in maniera incontenibile.
Ha un’espressione come a dire “siete tutti pazzi, non vi rendete conto della stupidità delle cose che state dicendo, è evidente”.
E ripete sconclusionatamente “le molecole…”.
Sto’ per esplodere in un vero e proprio turpiloquio con l’intenzione di distruggere le sue adorate certezze da talk show, ma Daniele mi precede:
“Non credo nei meridiani e nei paralleli, nel DNA, nelle molecole.
Non ci credo”
E lo dice con un tono perentorio, tanto che Francesco esplode in una risata (Luca in un sorriso) mentre io guardando la faccia serissima di Daniele che sembra stia affermando un dogma della fede, scoppio nel mio verso della rana (è il mio modo di ridere!).
Elisa è basita, non riesce a credere che noialtri prendiamo così sotto gamba le lucenti certezze della scienza, e se ne sta’ con il naso a mezz’aria (quindi poco più in alto del bordo tavolo, vista la sua statura) cercando la conferma che stiamo scherzando, che non osiamo mettere in dubbio le molecole, i meridiani ed il DNA, quando lo sanno tutti che esistono davvero e lo dice anche la TV.
A questo punto Francesco starnutisce facendo la doccia a Luca che gli sta’ di fronte e si asciuga il naso coi bordi della sciarpa.
“Ma dai, che schifo, ti asciughi con la sciarpa e poi la metti addosso”
“Non avevo voglia di prendere i fazzoletti, dovevo uscire di casa…. Uff.
E poi qui sopra c’è di tutto, vedi quell’angolino lì in fondo?
Lì l’ho usata l’altro giorno per asciugare il vomito dei miei coinquilini l’atro giorno che abbiamo fatto la festa alcolica.”
“Mio Dio”.
Mi ritraggo istintivamente e così fanno gli altri, in preda ai crampi di stomaco a quella vista.
Io per sicurezza mi allontano un po’ con la sedia.
Mentre cerchiamo di riprenderci da questa scoperta, Francesco, orgoglioso del disgusto suscitato dal suo sudiciume, incomincia a raccontare del suo alloggio.
Ci vivono lui ed altri cinque, di cui uno in subaffitto.
Quello in subaffitto è un ragazzo bulgaro che si è presentato da loro senza motivo e Francesco ed i suoi coinquilini hanno deciso di tenerlo in casa, come mascotte.
Su di lui Francesco racconta certe storie strane e contraddittorie, di cui ricordo solo quella secondo la quale una volta, in inverno, Francesco era entrato nel bagno ed aveva trovato “il bulgaro” che mentre si lavava la faccia nel lavandino si riscaldava il deretano con il phon puntato in mezzo alle chiappe con un espressione di piacere indescrivibile e rapita estasi.
L’alloggio l’ho visitato all’inizio dell’anno e vi assicuro che non è stata una bella esperienza.
La luce non entra dalle finestre perché sul balcone, nel corso dei mesi, si sono accumulati una quantità tale di sacchi dell’immondizia da formare una montagna nera alta abbastanza da coprire le finestre in tutta la loro altezza.
Il lavandino è pieno di piatti e padelle unti ed incrostati peggio che nella pubblicità di un qualche detersivo ed ovviamente non li lavano più di una volta alla settimana.
Mi ricordo ancora con quanto orgoglio mi ha mostrato la pentola dalla quale mangiano la fagiolata in tre per non dover lavare i piatti.
Sotto il suo letto ci sono perennemente tre o quattro cartoni della pizza con le formiche che fanno la spola, tutte in fila ordinatamente, in due corsie, una per andare ed una per tornare.
Insomma, non mi stupirebbe se uno di quelli che abitano lì dentro prendesse il colera, la peste bubbonica, la pellagra o la scabbia.
Tra l’igiene inesistente e la dieta costituita esclusivamente da fritti, pizza e fagiolata surgelata non ci sarebbe proprio da stupirsi.
“Avete presente i cinesi che abitano di fianco al mio alloggio e ci vivono in trenta?
Quelli che avevano appeso allo stendipanni sul balcone delle robe secche che sembravano proprio pipistrelli seccati?”
“Si, mi ricordo la storia dei pipistrelli”
“Bene, ci hanno denunciato all’igiene.”
Risate generali.
“No, questo è davvero troppo.
Se siete riusciti a farvi denunciare da quelli che vivono in trenta e si mangiano i pipistrelli, fate davvero troppo schifo!”
“Siete fantastici!
Ma come lo sai che vi hanno denunciato?”
“Oggi sono venuti due poliziotti.
Il bulgaro ha fatto appena tempo a nascondersi nell’ascensore quando li ha visti.
Hanno messo il naso dentro, fatto due domande e poi sono scappati fuori.”
“Come li capisco!”
La mia esclamazione è interrotta dall’arrivo del mio tè e dalle altre ordinazioni.
Approfittando del momento di silenzio tiro fuori dal tascapane la copia di quel mese della rivista ufficiale dell’università ed esordisco esclamando: “Guardate cosa ho qua!”.
Poi lancio uno sguardo interrogativo a Francesco che me lo strappa dalle mani per guardarlo, poi a Luca e a Elisa che sembrano sempre cadere dalle nuvole ed infine a Daniele che mi sta di fronte.
Daniele, dopo avere intinto per bene il suo naso aquilino nel tè che sta bevendo, ed averlo estratto dalla tazza ancora gocciolante, irrompe con una serie di critiche senza fine contro il giornale, anticipandomi.
“Ma l’avete letto l’articolo che paragonava Shopenauer e Leopardi?
Che originalità…
Venti righe di noia pura.
E poi, non parliamo dei trafiletti dedicati alla musica, quattro cavolate messe assieme…
E gli articoli scientifici senza senso?”
Io sono pienamente d’accordo e molto interessato, ma non posso fare a meno da fargli notare quanto sia lunga la sua proboscide che non può neppure bere senza bagnarsene la punta.
Daniele è uno che sa stare agli scherzi, infatti comincia a spiegarmi che quando ha il raffreddore deve usare il lenzuolo e poi che ha un bel naso greco come non se ne fanno più… e così via fino ad arrivare all’argomento chiave, tanto caro agli uomini superdotati di apparato olfattivo, ovvero: “tanto naso, tanto… naso”.
Mentre vengo sommerso da questa serie di argomenti in favore del profilo aquilino ho il tempo di pensare alla questione del giornale dell’università.
Visto che a quanto pare siamo gli unici che abbiamo letto la rivista e siamo dello stesso parere mi infervoro e comincio a borbottare anch’io:
“Ma torniamo all’argomento centrale, ovvero il giornale dell’università.
Praticamente carta straccia.
Hai visto poi tra i collaboratori, saranno più di cinquanta per fare quattro pagine esatte, e non riescono a tirare su niente di decente.”
La polemica è l’unica cosa che sicuramente non manca nella nostra cerchia ed infatti ecco che Francesco incomincia a dare il suo apporto più che altro blaterando nel dialetto incomprensibile della valle Camonica:
“Ci vorrebbe un giornale che facesse dei collegamenti più interessanti, qualcosa di più innovativo,
più psichedelico …
Cazzo, non si possono scrivere articoli come questi e sperare che la gente li legga…”
Così dicendo sbatte il giornale sul tavolino metallico del bar con teatralità.
Nello stesso momento, compiendo il gesto, con altrettanta teatralità si versa il tè bollente sui pantaloni, iniziando una specie di ballo di san Vito da osteria.
Oramai abituati a questo genere di performance non ci facciamo più nemmeno caso, infatti Elisa ne approfitta per appropriarsi del giornale e lasciarlo sbirciare così anche dal Luca.
Sarebbe bello anche sentire il parere di Luca, ma lui non parla mai, preferisce pensare bene alle cose, piuttosto che parlarsi addosso come facciamo noialtri.
E se si vuole sentire la sua voce bisogna fare richiesta con carta da bollo, seguire la procedura ed essere cortesi, altrimenti da quella bocca non esce un fiato.
Una procedura che farebbe parlare anche una statua, stufa di sentirsi pregare a quel modo.
Sarebbe bello anche non sentire Elisa che invece parla troppo e senza niente da dire.
Tra i vari gracidii non meglio identificati mi colpisce la frase: “Ma se avete tanto da lamentarvi perché non la fate voi una rivista?”
Francesco sbuffa rumorosamente.
Effettivamente non si può sperare in tanta buona volontà da parte di uno che dorme sedici ore al giorno e passa il resto della giornata a vegetare.
Allora mi si accende sulla testa la proverbiale lampadina che sta ad indicare che ho avuto un’idea, un’idea che subito vado ad esporre:
“Però, si potrebbe fare!”
Daniele ride, sornione e fa si con la testa
“Dai, scrivete le cavolate che mi dite al bar, così facciamo due articoli a testa ed abbiamo fatto la nostra rivista!”
Confesso che la proposta non è presa con molto entusiasmo.
Tuttavia io sono convinto e non mollo, perché quando mi metto in testa una cosa, difficilmente non la porto a termine.
Poi Elisa comincia a dire qualcosa riguardo alla mia pettinatura “finto spettinato” che in realtà è “vero spettinato” dal momento che non mi pettino dal ’98 ed allora la discussione passa ad altri temi.
Ma, detto tra noi, non ascolto molto dei discorsi che quella voce gracchiante spadella in quantità, mentre Francesco è caduto in evidente catalessi, Luca non si capisce se sta ascoltando o no (tanto non parla comunque) e Daniele finge interessamento, arte nella quale è un maestro.
Intanto continuo a pensare seriamente a questa storia della rivista
Di quella giornata sinceramente non ricordo molto altro.
E mi sono sempre chiesto come fanno gli scrittori, quelli seri, a ricordarsi giornate che accadono magari anni prima e raccontartele per filo e per segno, anche nei particolari e poi spacciarle per vere.
Ma inventano, è chiaro.
Siccome che io invece non ho alcuna voglia di inventare particolari inutili, mi concentrerò subito sull’importante.
Allora, dicevo che stavo pensando con impegno alla realizzazione della nostra rivista.
Mentre che ci penso sempre più seriamente (sono nel mio alloggio ed è ormai sera) mi ritorna il ricordo del periodo più triste che io riesca a ricordare.
Di solito si pensa alle gite scolastiche come qualcosa di molto divertente e piacevole, ed infatti così è di solito, ma quell’anno (parlo della quarta superiore) fu terribile.
Premetto che io soffro il pullman, mi sento schiacciato, mi manca l’aria e le budella mi si attorcigliano peggio di quanto succede ad un gomitolo lasciato alla mercé di un gatto.
Tutto si sopporta, soprattutto se si pensa che dopo verrà il bello.
Ma il bello non arrivò mai, dal momento che dalle otto del mattino fino alle otto di sera, tranne un paio di ore, si era sul pullman e io soffrivo di tutti quei simpatici sintomi descritti sopra, che, assommandosi crearono presto in me una quantità di stress incredibile.
Tra l’altro i miei amici avevano la pessima abitudine di suonare la chitarra per gran parte del viaggio, aumentando con i loro strimpellamenti cacofonici e pure cacaforici la quantità di stress che si andava accumulando sulla mia testa come una nuvolaccia nera che si faceva sempre più grande.
L’albergo dove dovevamo dormire era a dir poco un tugurio, con una finestrella di venti centimetri per venti, dove ovviamente non entravano né aria, né sole.
Il cibo era pessimo, a partire dal pane raffermo della colazione (quando si dice un bel risveglio!) per arrivare agli spaghetti tanto appiccicati che usavamo tagliarli col coltello.
Immaginatevi il mio umore, dopo essere stato sballottato qua e là senza senso, lo stomaco in gola parzialmente vuoto e le orecchie piene dei rumori da autobus.
Arrivo in camera e ho voglia solo di dormire.
Tra l’altro, essendo di questo umore terribile e allo stremo delle forze, circondato da mentecatti del calibro di quelli che mi stavano attorno, assumo senza volerlo un tono da dittatore.
Do ordini urlando e mi faccio obbedire all’istante.
Sono isterico e fuori di me.
Ho i nervi a pezzi e sono teso come la corda di un violino, pronto a spaccare tutto al minimo gesto.
Condivido la camera con due personaggi terribili.
Uno non lo nomino, perché il solo nominarlo porta sfortuna (e chi non ci crede sappia che chi l’ha sfidato si è ritrovato con un braccio rotto a causa delle sue maledizioni), dunque lo chiamerò l’Innominato.
L’altro si chiama Emanuele.
Emanuele è un ragazzo che ama la natura, ma la natura non lo ama.
Basta dargli un’occhiata per accorgersene.
A parte li scherzi (vi assicuro che quella sera non avevo alcuna voglia di scherzare) Emanuele è un bravo ragazzo, peccato sia così imbecille.
Ma torniamo ai fatti.
Mi getto nel letto e così fa anche Emanuele sul suo.
Dopo avermi svegliato tre o quattro volte per vedere se dormivo, mettendo a dura prova la mia pazienza già durissimamente provata, si decide ad addormentarsi anche lui.
E così trascorrono un po’ di ore beate nella braccia mi Morfeo.
L’Innominato, invece, ha la splendida idea di chiudersi in bagno alle quattro di notte a leggere “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino.
Il che non mi interesserebbe nemmeno più di tanto, se non che la luce proveniente dalla stanza non mi lascia dormire.
La tensione è tale che quasi mi schizzano fuori gli occhi dalle orbite.
Mi alzo di scatto e mi accorgo di non avere più il controllo di me stesso, ho solo voglia di distruggere, distruggere, distruggere.
Comincio a prendere a pugni la porta del bagno e ad urlare che se ne esca quell’imbecille che voglio dormire.
Quello dopo un po’ esce e solo grazie all’intervento tempestivo di altri amici sopraggiunti dopo aver udito il baccano infernale si salva da una bella ripassata.
Dopo questo sfogo e dopo aver urlato come un ossesso, mi calmo, anzi crollo di colpo, il che mi fa capire quanto sia grave il mio stato di stress.
Trovandomi in questo stato di prostrazione e mancandomi totalmente le energie per sopportare questo calvario terribile, voglio solo dormire, dormire, dormire.
Siccome che il giorno dopo la sveglia è insolitamente spostata verso le dieci, mi lascio sprofondare nel letto, pregustando un bel sonno ristoratore che magari mi avrebbe guarito da quello stato di esaurimento nervoso da manicomio.
Ma mi aspettava una bella sorpresa.
Infatti, verso le sette mi sveglio e mi accorgo che fa un freddo cane.
Nell’oscurità della stanza vedo il bianco di due occhi a palla, completamente spalancati.
È Emanuele che dorme (o almeno dovrebbe dormire) nel letto di fronte a me.
Vi assicuro che era davvero una visione inquietante, questi due occhi in mezzo al buio, roba da malati di mente.
Appena mi riprendo dall’impressione (non ho la forza di chiedere da quanto è così, sveglio con gli occhi spalancati nel buio o se li ha mai chiusi, anche perché la cosa continua ad inquietarmi) gli ordino di coprirmi con qualcosa, perché sto letteralmente battendo i denti.
Il fiato disegna delle nuvolette nell’aria, dunque dovremmo essere vicino agli zero gradi.
Quello fa finta di non capire, o forse è rimbambito a forza di stare con gli occhi spalancati e senza espressione.
Allora riprendo il mio tono da dittatore e urlo: “Coprimi!”
Emanuele dalla paura scatta giù dal letto, anche perché ha visto cosa sarebbe successo al suo vicino se per un pelo non fossero arrivati gli altri.
Si guarda un po’ intorno, tremando, e poi con un filo di voce mi chiede “Ma con cosa?”
Io mi limito a ripetere l’ordine con ancora più nervosismo (ero davvero del tutto fuori di me) e quasi quasi i nervi tesissimi mi fanno dimenticare il freddo e la stanchezza e mi spingono a saltare addosso al povero Emanuele con istinto omicida.
Ma, non so come, nell’istante che precedette l’azione, mi venne l’idea: “Togli le coperte all’Innominato” urlai.
“Ma… ma” balbettò Emanuele
“Obbedisci!” urlai ancora più forte mentre la testa mi pulsava
“Ma avrà freddo” disse infine, mentre l’Innominato non accennava a svegliarsi mentre veniva spogliato delle sue coperte e rimaneva in canottiera in mezzo al gelo.
“Chi se ne frega” ribatto seccamente, mentre mi faccio mettere sopra le coperte anche il mio giubbotto.
Così, senza essermi alzato dal letto, sono finalmente al caldo e cerco di riaddormentarmi per riprendere quel minimo di equilibrio mentale che mi rendo conto di avere completamente perso.
Degli altri giorni ricordo di avere parlato pochissimo, di essere stato chiuso in un angolo al fondo del pullman rimuginando il mio pessimismo totale ed a coltivare il mio odio verso il genere umano, accudendolo come un fiore raro.
Ad ogni modo l’ultima cosa che contraddistinse questa tragicommedia che per la prima volta mi portò alla gioia di una crisi di nervi fu il viaggio di ritorno.
Devo confessare che di quest’ultima parte i miei ricordi sono fumosi.
Ricordo con precisione, però, che ad un tratto l’autobus fu invaso da un fetore nauseabondo per tutta la sua lunghezza.
La gente comincia a mormorare e i più sboccati (o i più colpiti) cominciano a urlare che si soffoca ed a mostrare tutta la loro disperazione e mancanza di aria con versi gutturali e animaleschi.
Ci trovavamo in un’autostrada ai cui fianchi sorgevano un gran numero di fabbriche, così Giovanni salta su e dice: “No, ragazzi, è chimico, non può essere umano” mettendo enfasi sul fatto che “non poteva essere umano”.
Perché l’odore era davvero terribile e diverso da un qualsiasi odore che un animale può produrre (anche in decomposizione).
Guarda caso, io dal mio angolino ho notato che una ragazza, che chiamerò Bora, come è stata poi soprannominata, si era tolta le scarpe proprio in concomitanza con la comparsa di quel fenomeno atmosferico.
Allora comincio a ridere, di un riso isterico e un po’ folle (ricordatevi le mie condizioni) e non riesco più a fermarmi.
Emanuele e gli altri mi chiedono il perché di quella risata senza fine, e io singhiozzando glie lo spiego.
Così incominciamo a notare che l’apparire della nube tossica (che non può essere umana) coincideva con degli strani movimenti di assestamento del deretano di Bora o dello sfilarsi delle sue scarpe.
Ricordo che scendemmo dall’autobus con le lacrime che ci scendevano dagli occhi per le risate.
E le mie erano risate di disperazione.
Appena finisco di ricordare mi viene in mente che dovevo pensare alla rivista e non perdermi in questi particolari grotteschi.
Ma in mente mi rimane solo il piacevole ricordo di quella tristezza abissale a cui adesso penso con tenerezza come si pensa a qualcosa di sciocco ed ingenuo che non tornerà mai più.
Ma dal punto di vista realizzativo zero.
Dunque vado a dormire con il proposito di cominciare subito l’indomani a lezione a mettere giù i miei articoli.
Entro una settimana i miei articoli sono pronti e li faccio leggere agli altri.
Ovviamente gli altri non erano stati altrettanto volenterosi, ma speravo che con la lettura la prepotente facoltà imitativa si sarebbe messa all’opera e avrebbe scatenato (oddio andiamoci piano) la buona volontà.
A sorpresa in breve tempo Daniele si presenta col suo artico: La morte mediatica e l’illusione della reality-resurrezione, una simpatica vivisezione del fenomeno “reality” ovvero quella carrellata di volti sconosciuti, volti segnati dall’oblio televisivo, che cercavano nel naturale istinto voyeuristico una via per riconquistare quella notorietà che avevano perso irrimediabilmente.
Poi fu la volta del Francesco che propose Il fordismo nei cartoni della Disney dove si fa notare come nei famosi cartoni americani viene sempre un punto un cui i personaggi si mettono a fare il lavoro di catena di montaggio fischiettando allegramente tutti felici alla faccia dello sfruttamento.
Purtroppo ogni bella notizia è accompagnata da una triste novella, come dice un famoso proverbio sulle confezioni di tonno in scatola: in quel periodo infatti Elisa aveva cominciato ad indossare a lezione dei perizoma stile filo interdentale che cercava di mostrare in ogni modo anche con movimenti contorsionistici sui banchi della facoltà.
Coloro che si trovano ad essere spettatori loro malgrado di un tale spettacolo inorridiscono e si può quasi vedere nei loro volti l’orrore di quelle chiappe spelacchiate e bianchicce che si profilano ad ogni “inchino” per raccogliere gomme, biro, quaderni e qualsiasi altro oggetto atto ad essere gettato e poi raccolto.
Cerchiamo di dissuaderla in tutti i modi da un tale abbigliamento ma l’argomento con cui ribatte è “Se guardi vuol dire che sei interessato.”
Lei stessa (cercavamo di sederci a fianco o davanti per evitare lo spettacolo) ci racconta di come nel suo alloggio stessero perseguitando un’inquilina perché di notte ruba la nutella.
Io mi immagino ancora a volte questa ragazza beccata di notte con le mani nel barattolo, sporca fino al mento e con un’espressione tra l’estasi e la paura.
Seguiamo le lezioni di logica e si decidiamo in vista dell’esame di andare nell’alloggio di Elisa per ripassare (o nel mio caso) per studiare.
Ci rechiamo sul luogo e cominciamo a studiare al mattino.
Elisa ci dice che le coinquiline fanno la dieta a zone, cosa che solletica la nostra curiosità.
Le coinquiline sono infatti (lo scopriamo poco dopo) più larghe che alte, come scopriamo che in casa si era dovuto comprare un altro frigorifero alto fino al soffitto perché in uno solo non riuscivano a stipare tutte le loro cibarie (e si era in quattro ragazze).
Durante la giornata non passano dieci minuti senza che una di loro viene in cucina “ragazzi, mi faccio una piada con la mortazza, scusate” “io mi mangio due biscotti” “ per merenda possiamo fare un salame dolce, ci vuole un panetto di burro, zucchero, cacao…” e così di seguito.
Studiamo fino a tardi, tanto che, verso mezzanotte, usciamo per bere una birra al pub al centro.
Poi, da galantuomini, riaccompagniamo le dame al loro alloggio (solo Elisa e una sua coinquilina, quella della nutella, per intenderci, ci avevano seguito).
Saranno state le quattro di notte, quando quest’ultima esclama: “adesso mi mangio un po’ di latte coi biscotti!”.
Al che non sono più riuscito a trattenermi e sono esploso: “Ecco cosa vuol dire dieta a zone: mangiate un po’ in salotto, un po’ in cucina, un po’ in camera da letto e pure un po’ in bagno!!!”.
Ad ogni modo, il progetto della rivista procede (anche meglio di quanto procedono gli esami in questo periodo) e io sono felice.
Torno nel mio alloggio dove al primo piano abita una coppia di coreani che di mestiere fanno i cantanti lirici e che in precedenza avevano abitato quell’alloggio, lasciando come eredità uno strato di unto che rende faticoso girare le manopole dei fornelli, intasa la cappa fumaria e rende in generale tutto appiccicoso in cucina.
Inoltre un certo numero di mobili traballanti, (o, come sostiene il mio coinquilino, resi traballanti perché usati in pratiche sessuali) e una caldaia che non funziona più e che, come ci disse il tecnico quando venne ad aggiustarla, “anche se la spegnete lasciate sempre la finestra un po’ aperta pure d’inverno, altrimenti ci rimettete le penne”.
Come dicevo i coreani fanno i cantanti lirici e ogni pomeriggio, come quel pomeriggio, si esercitano in “o sole mio sta in front a te ecc. ecc.”
In compenso il mio coinquilino che come dice lui è un lupo mannaro all’incontrario, ovvero i peli su tutto il corpo (Emanuele in gita gli pettinava i peli sulla schiena, tanto per dire) gli si ritirano quando c’è la luna piena, ha di nuovo intasato il lavandino (di peli naturaliter).
Malgrado le apparenze è un ragazzo di grande sensibilità.
Ricordo quella volta che, pochi mesi prima, un mio amico si era ubriacato ed aveva vomitato sul pavimento, formando un allegro laghetto.
Io ero a mia volta brillo e non ce la feci a pulire, limitandomi ad addormentarmi, mentre lui dormiva sul divano.
Paolo (così si chiama il mio coinquilino) era fuori e tornò la notte (noi non lo sentimmo, visto che eravamo profondamente addormentati.
Ebbene, non si accorse di niente!!!
Sguazzò allegramente nel vomito, respirò la puzza e il giorno dopo trovammo impronte che andavano in avanti ed indietro dalla sua camera, segno che se ne era andato di nuovo.
Quando gli chiedo se si era accorto della faccenda mi guarda con fare interrogativo.
Ad ogni modo sono in alloggio che penso per caso alla rivista, tormentato dal canto dei coreani, mentre ogni tanto dall’appartamento di sotto vengono bestemmie fantascientifiche e rutti che perforano la barriera del suono, quando Paolo entra in casa con un suo amico.
Un simpaticone che mi dice che lui è “a metà tra la scienza e l’umanismo” e per questo fa economia.
Stabilisco la regola che quando avrò una casa mia chi è al di sotto di una certa soglia di stupidità non potrà entrare (un po’ come le giostre: “se sei alto meno di così non puoi salire”); “ se sei più cretino di così non puoi entrare”.
Ad ogni modo, qualche sera dopo ci riuniamo dal Luca, tranne Francesco, che siccome nevischiava, ci fa sapere tramite SMS: “Non esco. Ho freddo e paura.”.
Luca a sua volta ci stupisce tutti col suo gusto per l’epico; così basso di statura, magrolino e palliduccio è davvero quanto meno nella mia mente si associ a ciò che è guerresco, avventuroso, coraggioso.
E soprattutto mentre ascolta musica che evoca imprese epiche ha un’espressione delirante, che in parte per sua natura cerca di nascondere per pudore, con gli occhi lucidi e i pugni che si muovono a tempo, ondeggiando, come in una marcia; qualcosa di davvero impressionante.
Daniele ci intrattiene sul fatto che lui pensa di essere un supereroe.
Allora attacco a sfotterlo dicendo che può avere il superolfatto con quel naso, ma che razza di superpotere è e a cosa serve?
“E certo” dice lui “serve per catturare il super cattivo che è invisibile però ha una super puzza”.
“Mah”
Lui ha una teoria tutta sua sugli alieni: “Io non vedo l’ora che arrivano le aliene sulla terra.
Ci ho provato con le terrestri ma non me la danno.
Mi rimangono le aliene.
Ma perché non si sbrigano a venire, non ce la faccio più.”.
Io continuo ad istigarli per portare avanti il progetto rivista, ma sorgono problemi insormontabili.
Il finanziamento e la stampa sono cose di cui naturalmente nessuno vuole occuparsi.
Confesso che mi sento frustrato per la mia incapacità di superare questi ostacoli e per la scarsa voglia di farlo che gli altri dimostrano.
Intanto Daniele continua a deliziarci con la storia di quando faceva il boy scout.
“Per il pranzo si usava l’espediente terroristico di mettere insieme tutti i panini dei partecipanti e ognuno pescava a caso il panino che avrebbe dovuto mangiare.
Così io facevo un panino schifoso con una sottiletta e tutte le volte c’era qualcuno che esclamava
-Ma che schifo, chi è che mette il panino con la sottiletta?.-
Solo che una volta mi è capitato a me e mi è toccato mangiarmelo.”
Quella sera stessa si viene a sapere che Francesco è caduto nel culto della birra del bucaniere.
Ovvero che ha inventato, insieme ad altri compagni della sua cricca, un vero e proprio culto di questa birra dallo sgradevole sapore di rum, con dogmi, festività e manifestazioni del sacro.
Qualche giorno più tardi ci racconta delle sue vacanze passate in baita e della perdita del loro Dio (la bottiglia della birra) e di come poi fu fortunosamente ritrovato.
Ricordo che un giorno, mentre lo accompagnavo a casa (abitavamo relativamente vicini), Francesco mi dice : “Il nichilismo è la constatazione che alla fine ogni cosa è un narcotico.
E io credo che sia così.”
Ribattei a questa affermazione che mi sembrava un’assurdità eppure continuai a pensarci.
E il fatto che ci pensassi, nonostante non riuscissi ad accettarla, significava che comunque vi trovavo una parte di verità.
Mi resi conto infine che aveva perfettamente ragione e che io stesso ero in quella prospettiva, senza rendermene conto.
La differenza era che io a questa constatazione aggiungevo la scelta opposta, il rifiuto del narcotico, la scelta del dolore, della sofferenza volontaria in quanto solo quella ti faceva stare sveglio.
Tutta l’umanità mi sembrava addormentata, narcotizzata da mille cose, in una parola morta, incosciente.
Il rifiuto di ogni narcotico invece era doloroso ma teneva svegli, coscienti e la coscienza è l’unico valore, mentre i nichilisti nella loro cecità non ne vedono nessuno.
In questa scelta estrema possono essere riassunti quegli anni che passai alla ricerca perenne di aumentare il mio livello di coscienza, unica via di salvezza.
In quel periodo mi telefonava una volta alla settimana un mio amico di Moncalvo (il mio paese), Andrea e mi raccontava un po’ della sua vita.
Oddio più che di vita si parlava di morte, della nostra morte, del suicidio un po’ in tutte le salse.
Parlavo di come ultimamente mi sentissi Dio nel senso che avevo fatta mia, vivendola anima e corpo la verità dell’idealismo che è l’Io a creare il mondo; cercavo di viverla intensamente in ogni istante, di non farla rimanere semplice constatazione intellettuale ma verità fisica, materiale, palpabile.
Non credo che lui capisse il senso in cui intendevo questo, ma la cosa lo divertiva (i deliri di onnipotenza sono sempre tragicomici).
Lo convinsi tanto bene che mi raccontò di come, avendo litigato con sua madre lui le aveva urlato: “Come ti ho creato così ti distruggo”.
Lei si limitò a tirargli una sedia in testa.
Andrea, nonostante la sua età (aveva 18 anni) era affetto dall’acne e si tormentava molto per questo suo difetto fisico che rendeva la sua faccia già punteggiata da due occhi sporgenti da bue, più simile ad una pizza che ad un volto umano.
Così un giorno si lavò il viso con la candeggina, col solo risultato di diventare completamente viola, mentre le pustole erano ancora lì a sbeffeggiarlo.
Non so se durante le nostre interminabili telefonate mi autoconvincessi più che convincere lui.
Di certo erano per me come per lui un grande sfogo.
Un giorno mi raccontò che la sera prima voleva uscire in macchina per andarsi a schiantare contro un muro, ma i suoi non lo lasciarono uscire perché andava male a scuola.
Lui, su tutte le furie, si mise allora ad urlare: “non mi lasciate nemmeno morire in pace!”.
Oddio, mi sa che sto andando fuori tema!
Devo stare attento o prenderò un’insufficienza!
Riprendiamo dunque il filo dalla matassa confusa della memoria:
Passa il tempo ed infine Francesco e Daniele presentano il secondo articolo.
Quello di Francesco (me lo presenta su un foglietto cartaigienico con macchie di sugo) parla del rapporto tra Affari tuoi, un programma televisivo, e La Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
Il legame c’è: il meccanismo del gioco consiste nel fatto che il concorrente abbia a sua disposizione un pacco di cui ignora il contenuto; aprendo gli altri pacchi, per esclusione, il partecipante scopre qual è il contenuto del suo pacco che poi costituisce il suo premio.
Allo stesso modo si comporta lo Spirito secondo il filosofo tedesco, diviene cosciente di sé stesso attraverso un graduale processo di negazione determinata che esclude e supera le parti che in un primo momento aveva posto fuori di se.
È quasi giunto dicembre e gli esami per me vanno un po’ meglio di quanto proceda il progetto oramai fantomatico della rivista, essendo l’impegno dei primi causa dell’abbandono del secondo.
Il collegio universitario in cui alloggia Luca verso la fine di Dicembre organizza un presepe vivente in cui le matricole prendono parte come attori.
Alcuni impersonano il bue, l’asinello, la Madonna, san Giuseppe e i re magi, fino ad arrivare alle pecore che devono stare tutto il tempo a quattro zampe e subire le varie bastonate e alla prostituta (che, scusate la mia ignoranza ma non ho mai capito cosa c’entri col presepe) impersonata da un ragazzo truccato in modo davvero osceno.
Ma il ruolo peggiore lo detiene la stella cometa che deve stare su un albero tutta la mattina (siamo a Dicembre, fa freddo!) senza mangiare ne bere fino alle due del pomeriggio, sbeffeggiato da tutti e bersagliato con proiettili di fortuna.
Per il suo primo anno Luca deve partecipare e lo fa in veste di Gesù bambino, vista la sua bassa statura che gli consente di entrare in qualche modo in una cassetta rappresentante la culla.
Devo dire che non è un ruolo niente male (soprattutto se confrontato a quelli di sopra) e poi con la scusa che porta buona fortuna lo fanno baciare da tutte le ragazze che passano di là con evidente arrossamento delle sue guance, tranne forse una volta che lo volle baciare una vecchia.
Ad ogni modo, svolgendosi tale presepe all’ora del pranzo, a metà tra due lezioni, ne approfitto per cibarmi del salame e del formaggio a fette e soprattutto di abbondante vin brulè che qualcuno non manca di versarmi gentilmente sul giubbotto (in futuro avrei scoperto che era una cerimonia questa inevitabile, che si ripeteva uguale ogni anno).
Ricordo soprattutto che alla lezione dopo vado decisamente brillo e della rivista, dopo i rapidi accenni fatti nel cortile del collegio, me ne sono totalmente dimenticato.
Qualche giorno dopo la rivista è quasi del tutto ultimata, avendo raccolto tutti gli articoli necessari, non manca che fare la copertina, un indice e un’introduzione (le immagini purtroppo erano al di fuori della nostra portata).
Ne parlo all’ennesima “riunione” al bar.
“Si ragazzi, creo il mondo col linguaggio” questo è Daniele, “il linguaggio crea il mondo.
Ad esempio ieri ho detto: adesso trovo 10 euro e li ho trovati per terra”.
“Ma dai” gli faccio io.
“Si, si, ad esempio tu dimmi cosa vuoi e io te lo creo col linguaggio”.
“Allora dai, adesso che arrivo a casa fammi trovare due modelle tutte nude nel letto e due miliardi di euro nel cassetto”
“Aspetta” si mette le mani sulle tempie con fare meditabondo e sforzato come quando ci si sforza di andare di corpo “Ecco fatto. Adesso vai a casa e trovi quello che hai chiesto”.
Io scuoto la testa tra il divertito e il rassegnato e chiedo all’Elisa “E tu cosa chiedi al nostro mago qui?”
“Vorrei dormire tutto il giorno, sai che figata?” squittisce lei
“Ma dai che desiderio schifoso, non posso esaudirlo” risponde Daniele.
“Perché? Perché?”
“Dai basta stai zitta” le dico io e passo a porre la domanda a Francesco “E tu Francesco cosa vorresti?”
“La dignità” fece lui.
Ci fu un istante di silenzio.
Poi Daniele incalza “Va bene che creo il mondo, ma i miracoli non li so mica fare”.
“Visto che crei il mondo col linguaggio vedi di creare una bella copertina per la nostra rivista”.
“Per me va benissimo, ho già in mente l’immagine da usare”.
Così alla fine Daniele sceglie una copertina adeguata per la rivista e io scrivo un’introduzione come si deve.
La rivista la intitoliamo Tabù, perché tratta più che altro di critica di costume e quindi dei pregiudizi, delle isterie collettive e dei tabù atavici che vivono nella società.
Mi ritrovo un giorno ad avere di fronte a me una copia della rivista, stampata ben bene, tutta bella e altera nella sua veste grafica.
Non se ne fece più niente.
L’anno dopo Daniele mi propose di metterla in rete, ma la scarsa competenza telematica impedì la riuscita del progetto e ci accorgemmo che gli articoli stavano già perdendo di attualità.
Di tutto quel periodo mi rimane come un fil rouge il ricordo di questa rivista abortita, dell’entusiasmo che ancora mi animava ( e ci animava), la fiducia nelle idee e nel valore delle cose belle.
Tutte cose che di lì a poco l’università avrebbe dilaniato per lasciare spazio alla rassegnazione.
Così, col tempo il ricordo sbiadisce e diventa racconto, il racconto mito, il mito leggenda e
la leggenda infine diviene un mare di cazzate.
Le cazzate a volte diventano un best seller e fanno guadagnare milioni di dollari.
Ma evidentemente non è questo il caso.

Copyright Bruno Corzino, 2006



Caro Bruno, come puoi vedere questa volta sono riuscito a mandare in rete l'epopea della nostra rivista, chissà, forse è stata la forza della trippa. Spero che il racconto sia stato di vostro gradimento, a noi rimane solo il ricordo


La redazione di Tabù