martedì 30 gennaio 2007

Bruno Corzino presenta: Un nuovo modo di scrivere di filosofia


Scrivere (o parlare) di filosofia o filosoficamente, significa utilizzare il linguaggio per trasmettere o far nascere il pensiero nella sua forma più pura, più astratta, più essenziale: non si parla del diritto ma delle premesse del diritto, non della morale ma delle ragioni per cui una cosa è moralmente buona o giusta, non della conoscenza ma delle possibilità della conoscenza, non della vita ma del senso della vita.
Per questo scrivere di filosofia implica una comunicazione più complessa, articolata su vari livelli, essendo il suo fine tanto ardito ed elevato.
La comunicazione ordinaria si basa sull’ellisse.
I particolari per cui un’immagine nasce, i collegamenti soggettivi, il suo contenuto analogico vengono taciuti, filtrati dal linguaggio, per ottenere qualcosa di facilmente assimilabile dall’ascoltatore; funzione decisamente utile per fini pratici.
Tuttavia a livello di comunicazione e coltivazione del pensiero l’ellisse risulta perlopiù dannosa, innanzi tutto perché a tale livello manca un tipo di esperienza oggettuale che completi, che integri le parti che nel messaggio vengono taciute.
In questo modo l’ellisse comune ad ogni parlare filosofico, mancando il riferimento che completi il messaggio, risulta una menomazione arbitraria di uno scorrere.[1]
Certamente l’ellissi è un processo necessario nel discorso, per non ridurre la comunicazione a puro flusso di coscienza privo di un vero contenuto intellettuale, ma divagante in ogni dove; allo stesso modo si fa con gli alberi che vengono potati per far si che crescano meglio.
Dobbiamo allora considerare le varie parti del pensiero e del suo articolarsi.
Se tutta la realtà percepibile è un immagine, ovvero un insieme finito di stimoli, sappiamo che tali stimoli si riflettono sui sensi e sull’intelletto dando luogo a un riflesso che per questo definiamo immagine.
Quindi la realtà è composta da immagini e tali immagini sono riflessi di stimoli provenienti dall’ “esterno”.
Possiamo dire allora che la realtà è composta di riflessi a partire da un centro.
Il pensiero si articola quindi in quattro fasi: 1) l’emanazione dal centro, dal silenzio che nel linguaggio è il punto, inizio e fine di ogni frase[2]; 2) il propagarsi verso la superficie riflettente, lo spandersi della luce nello spazio; 3) il contatto con la superficie riflettente, la creazione dell’immagine riflessa; 4) il ritorno della luce, contenente in negativo l’immagine, verso il centro.
Se questa semplice considerazione sulla realtà e sul pensiero appare strana ed esoterica, occorre forse riflettere su cosa è strano e difficile.
Ad un novizio le teorie aristoteliche appariranno strane ed esoteriche, bislacche e distanti dal senso comune.
Il senso comune: ecco la base, il metro di giudizio di ciò che è strano: la novità è ciò che ancora non vi è contenuto.
Quindi la meraviglia che è fascinazione mista a paura e ritrazione[3].
Quando lo stesso novizio avrà padroneggiato le teorie aristoteliche esse gli appariranno normali, abituali; esse perderanno altresì di bellezza ed interesse.
Tuttavia il senso comune spinge molti che sono pesantemente avvinti nelle sue catene a non vedere bellezza e meraviglia in ciò che vi è estraneo ma a negarlo e distruggerlo in tutti i modi.[4]
Un modo per ridurre la ritrazione che il nuovo, il diverso suscitano, è ricondurre ciò che è esterno al proprio senso comune a qualcosa che già vi è contenuto.
Nel nostro caso notiamo che a questi quattro “livelli” del pensiero[5] nel medioevo corrispondevano i quattro “gradi” della lettura: 1 allegorico; 2 morale; 3 letterale e 4 anagogico.
Le corrispondenze sono puntuali: innanzi tutto (1) si ha il carattere metaforico del pensiero che cerca di definire qualcosa nella sua assenza e per farlo si serve di metafore[6]; quindi si ha (2) il come questa metafora si applica all’agire umano; e (3) l’immagine propriamente detta, il referente materiale; infine (4) il ritorno al “centro”, alla pienezza, mediante la contemplazione della provenienza dell’immagine da tale “luogo”.
Allo stesso modo il pensiero può essere considerato: 1) per la coerenza, ovvero per il concetto posto nella giusta posizione all’interno della grammatica del pensiero ; 2) per la sua analogicità, o metodo, ovvero per la sua maggiore o minore capacità di essere applicato a più immagini-situazioni; 3) per la sua immagine, ovvero per il contenuto di stimoli sensoriali memorizzati; 4) l’abissalità, ovvero la capacità di andare sempre più “a fondo”, procedendo instancabilmente verso l’Origine o scaturigine del pensiero stesso che è Silenzio.
Solitamente lo scrivere filosofico trancia di netto la coda del pensiero, limitandosi all’aspetto concettuale e cristallino; rendendo il pensiero così immobile ed inerte da risultare una salma, una muta pietra (nonostante le varie false aperture della filosofia contemporanea “relativista”; dei vari forse, ma, però).
A contrario tutti questi aspetti dovrebbero essere contemplati da chi scrive filosofia, per fare si che il pensiero si sviluppi in maniera completa e totale.
Omettere le fonti a cui si pensa, al proprio metodo o applicazione nella vita quotidiana, alle immagini sensibili o esempi e alle sensazioni ed atmosfere che esse suscitano e al fine al quale si mira, significa mutilare orrendamente il pensiero, renderlo monco ed incapace di crescere.
Le fonti e la logica interna (1); le immagini a cui si applica e il metodo (2); le sensazioni e le immagini ad esso correlate (3); il fine e il senso (4) devono essere tutti compresi nella scrittura filosofica, anche applicando una sensata ellissi per non far disperdere il pensiero.
Allo stesso modo si dispone così di un metro di giudizio per verificare la validità di un pensiero, basato sulla misurazione di quattro parametri: 1) coerenza; 2) analogicità; 3) artigianalità; 4) profondità.
Per coerenza è da intendersi sia la coerenza interna della grammatica di un sistema di pensiero, sia la capacità di tale ordine di rappresentare la realtà in modo pregnante.
Per analogicità o metodo si intende la possibilità di applicare la teoria all’agire umano, ovvero ad essere applicabile e quindi guidarlo in diverse situazioni.
Per artigianalità è da intendersi il non essere vincolati dalla grammatica della visione comune e di teorie in generale, ma la capacità di forgiare immagini capaci di affascinare, ovvero di costruire un nuovo senso a partire da tale nuova bellezza.
Per profondità o abissalità è da intendersi la capacità del pensiero di andare sempre più a fondo, di non fermarsi ad alcuna conclusione; la massima profondità è raggiunta quando il pensiero di riavvolge su se stesso fino ad autodistruggersi.
Un esempio di coerenza assoluta è l’affermazione parmenidea: “l’essere è e non può non essere”; tautologia logicamente ineccepibile da una parte ed insieme descrizione aderente all’esperienza.
L’analogicità si esprime al massimo nell’idea stessa di Metodo come macchina analogica applicabile a tutta la realtà, capace di guidare l’agire umano in ogni frangente.
L’artigianalità la ritroviamo nella metafora di Wittenstein quando nella prefazione del Tractatus parla delle sue proposizioni come “una scala che una volta utilizzata per salire debba essere gettata via”; da notare come le immagini risultino artigianali, ovvero “soggettive” rispetto alla grammatica di un sistema di pensiero, ma non rispetto al loro significato.
Ovvero conservano in sé un nucleo che costruisce intorno a loro un significato proprio, una propria grammatica che si mantiene invariata rispetto al contesto logico in cui l’immagine viene a porsi.
In questo caso è da notare la somiglianza dell’immagine wittensteiniana con l’iconografia che raffigura una scala appoggiata al crocifisso dove il Cristo sacrifica se stesso.
Per quanto riguarda la profondità la logica buddista è l’esempio perfetto di come riuscire a condurre il pensiero a riavvolgersi completamente su se stesso, a “ritornare a casa”, all’Origine, distruggendosi, sacrificandosi per comunicare la propria vita a qualcosa di più alto.
La verità è un sinolo di forma e sostanza: la forma è il concetto (ordine e posizione), la sostanza è l’immagine, la metafora, l’exemplum.
Privare la verità della sua immagine significa privarla di contenuto, di sostanza.
Baumgarten spiega che la verità è analoga alla bellezza: si tratta di fascinazioni, di innamoramenti, rispettivamente dell’intelletto e del senso.
Come insegna Platone, bellezza e verità sono due entità di cui l’uomo si innamora e tale forma di amore non è altro che un’anagogia, una strada per raggiungere la Pienezza.
Dal momento che l’anagogia o ritorno al Centro è la funzione principale e il fine (anche se la maggior parte delle volte nascosto) di ogni pensiero.
Occorre quindi preservare il pensiero nella sua interezza, affinché nello scorrere del discorso venga trasmessa la verità nella sua luminosità, di modo che senso ed intelletto si innamorino entrambi e affascinati si volgano alla meta più alta.



[1] Heidegger diceva in metafora che il pensiero è come un pesce; toglierlo dalle sue contraddizioni, dal suo sviluppo è come tirarlo fuor d’acqua e farlo morire.
Credo che sia decisamente migliore vedere il pensiero come un albero che si sviluppa in varie ramificazioni ondulate: volerlo tutto concettuale e logicamente cristallino significa farlo divenire dritto tagliandogli tutti i rami.
[2] Si veda a tale proposito anche Kandinsky Punto linea superficie.
[3] Hutcheson, che si occupò di estetica nell’Inghilterra di fine ‘700 pose la novità come una delle quattro componenti della bellezza.
[4] Costoro non sono filosofi direbbe Aristotele.
[5] Dire che il pensiero ha 4 “livelli” è come dire che un uomo è alto 2 metri; si potrebbe altresì dire che è alto 200 centimetri e si sarebbe sempre nel giusto: non si scambi la cartina per il paesaggio rappresentato.
[6] Il nome è un sostituto, un rappresentante.
Tuttavia per definire tale rappresentante, per dire cos’è, il pensiero necessita della metafora.

Copyright Bruno Corzino 2007

giovedì 25 gennaio 2007

Haiku 8



Fiocchi di neve
in candidi pensieri
il tuo sorriso

mercoledì 17 gennaio 2007

Haiku irregolare



Il pupazzo a molla
esce dalla scatola
a fine ora

Haiku 7



Ragazza buffa
subito una risata
ora trattengo

martedì 16 gennaio 2007

Tanka sull'eros



Corpo accudito,
nel sonno del piacere
desio m'annega
nel porti una carezza
che tua beltate sfiora

lunedì 15 gennaio 2007

Aforisma del giorno e sua deduzione


Una cosa buona non ci piace se non ne siamo all'altezza
(Friederich Nietzsche)

Chi non ama il jazz non ne è all'altezza
(Daniele Foti)

Blog report

Informazione d’ufficio: A causa di esami imminenti e del delirio di preparazione che mi prende con l’avvicinarsi di essi, avrò poco tempo da dedicare al mio amato pubblico di baronetti. So che questo ti rattristerà, o mio lettore, dopotutto “se sei qui è perchè te c'hai molta crisi, stai miagolando nel buio, vai a dentoni. Ti chiedi: "Come mai?, come? dove nel mondo?, dove? chi?, perchè? quando?" (Corrado Guzzanti).
Non ti preoccupare, prima o poi le “crisi” passano. A presto.

Lo staff di Tabù

venerdì 12 gennaio 2007

Aforisma del giorno


Curiamo gli altri per curare noi stessi

Haiku 6


Continuamente,
per sempre, alla fine
dell'eternità

giovedì 11 gennaio 2007

Aforisma del giorno


Nescis quem fugias ideoque fugis
Non sai a chi fuggi e perciò fuggi.
(Ovidio, Metamorfosi)

L'immagine occidentale del corpo



Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza
(F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra)

Nell'opera Così parlò Zarathustra Nietzsche afferma che «Il corpo è una grande ragione» che opera e si muove indipendentemente dal consenso dell'uomo. Il corpo si contrappone alla “piccola ragione”, l'intelletto che crede di dominare il corpo. Abbiamo con Nietzsche un ribaltamento vero e proprio del carattere tradizionale legato alla corporeità.
Già nella filosofia platonica si ha una separazione tra corpo e anima, dove il primo viene ad essere la dimora e la tomba stessa dell'anima.

E se avesse ragione Euripide là dove dice: “Chi può sapere se vivere non sia morire e il morire non sia vivere? Forse la nostra vita è in realtà una morte. Del resto ho già sentito dire, anche da uomini sapienti che noi ora siamo morti e che il corpo è per noi una tomba.
(Platone, Gorgia)


Ma perché Platone arriverà a definire il corpo come tomba dell'Anima? Platone crede nel carattere trascendente della verità. In questa impostazione speculativa si arriverà a scindere il regno materiale, del corpo, della caducità e dell'imperfezione dal regno delle idee, perfette, immateriali ed eterne. In questo dualismo cosmologico il filosofo per ricercare la verità deve sottrarsi alla propria corporeità, alla materia e alla imperfezione che essa porta.

Il compito della filosofia è quello di liberare l'anima dal corpo
(Platone, Fedone)

Il regno della mente diventa il regno del valore e del positivo e il regno della materia il regno del disvalore e del negativo. Da questo dualismo cosmologico nascerà il concetto di anima come vera e unica realtà del mondo trascendente e immateriale, a cui si accede solo nella sottrazione alla corporeità e alla materia. Tutto questo nasce da un esigenza di ricerca di verità. O infatti si continua ad identificare l'uomo con il proprio corpo e di conseguenza con il suo carattere materiale, mutevole e mortale negando in questo modo l'accesso ad una verità trascendente perfetta ed eterna, o si comincia a distinguere nell'uomo un elemento materiale e un altro immateriale, anima appunto. Da questo momento il corpo sarà pensato come tomba dell'anima, da questo momento sarà introdotta l'opposizione dualista psyché – sôma. La psyché, l'anima, si afferma a spese del sôma, il corpo. Tutto questo nasce con Platone. Prima di Platone nel mondo greco il corpo umano era esaltato, basti pensare alle pitture vascolari appartenenti al “periodo geometrico” raffiguranti corpi atletici armoniosi. Prima di Platone il mondo greco non conosceva nemmeno l'opposizione tra psyché e sôma. In realtà questi due termini sono già presenti con Omero ma con un significato completamente diverso da quello che assumeranno più avanti con la filosofia platonica. In Omero sôma è il corpo morto, la salma e non il corpo vivente. Con i termini démas, la figura del corpo, chrìos, la pelle e guîa – mélea, le membra, Omero non parla di cose, non parla di organi o strumenti, ma si riferisce ad un concetto di corpo come possibilità nel mondo. Il piede d'Achille in Omero non è una cosa, ma è la sua possibilità di superare l'avversario. Il corpo è possibilità, il sôma è il cadavere. In un certo senso anche per Platone il corpo come sôma è identificabile con la sêma, la salma. Il corpo infatti è comunque la tomba dell'anima, il luogo dove essa giace sepolta. Quando Platone parla di sôma dunque si riferisce al cadavere e non al corpo. Se Omero non concependo un'anima dietro al corpo poteva distinguere un corpo da un cadavere, tutto questo in Platone non è possibile. Ma qual è la differenza fondamentale di un corpo con un cadavere? Il corpo è in interazione con il mondo mentre il cadavere è una mera cosa nel mondo. Il corpo è possibilità, il cadavere una cosa .
Anche l'anima in Omero assume un diverso significato. Se in Platone l'anima è distinta e indipendente dal corpo, in Omero l'anima assume i caratteri di dipendenza corporea.


E il veridico vate, bevuto il negro sangue, così mosse il labbro a parlare
(Omero, Odissea, libro XI)

L'anima nell'Ade deve bere il sangue per riacquistare la memoria degli eventi. In greco psyché significa “respiro”, soffio, e psýchein “respirare”, Questo soffio è qualcosa di corporeo e materiale, di fisico.
Platone con il dualismo psyché – sôma fonda il concetto moderno occidentale di corpo.
Con Aristotele si dissolve il dualismo antropologico platonico. L'anima viene identificata con la vita, bìos, e come tale non è separabile dal corpo.

psyché è identica a vita (bìos), e come tale non è separabile dal corpo
(Aristotele, L'Anima, Libro III)

Se l'anima non è separata dal corpo allora quella ricerca filosofica come “cura dell'anima” nella liberazione dalla catene del corpo risulta priva di senso. L'Occidente però non seguirà Aristotele ma Platone.
Il modello concettuale platonico verrà assorbito dall'antropologia biblica. Bisogna subito precisare che la tradizione biblica non accetta il dualismo greco tra anima e corpo. Al livello antropologico la tradizione biblica ignora il dualismo tanto che i termini “corpo” e “anima” saranno presi nella traduzione greca della Bibbia dei Settanta dalla tradizione linguistica greca. Nella versione dei Settanta il termine ebraico nefes viene tradotto con psyché. Nefes in ebraico indica l'indigenza dell'uomo e l'ordine dei suoi bisogni. In Isaia (5,14), nefes viene usato per alludere alla gola come organo della nutrizione che esprime il bisogno corporeo. Da questo significato letterale si è poi passati ad uno metaforico. Nefes ora viene utilizzato per indicare il desiderio, l'aspirazione e più in generale la vita.

Il sangue, questo è la nefes
(Septuaginta, Deuteronomio, 12, 23)

Nefes quindi non significa anima ma vita. Anche il termine ebraico per indicare il corpo, bâsâr, non ha significato analogo a quello greco di sòma. Bâsâr indica la carne (sarx) come simbolo di corruttibilità e impotenza dell'uomo rispetto alla forza, ruah, di Dio. La caducità e l'impotenza di bâsâr sono quindi la caducità e l'impotenza dell'uomo che si allontana dalla potenza di Dio. E' proprio questo allontanamento l'essenza del peccato nella religione ebraica. Da qui l'idea di peccato verrà associata al corpo e alla carne, ma non perché la carne sia in sé cattiva; Dio infatti trova buono tutto ciò che crea, la carne è cattiva perché nella tradizione veterotestamentale è simbolo della pretesa dell'uomo di rendersi indipendenti da Dio. Questo significa che nella tradizione ebraica non esiste un corpo cattivo e un'anima buona. Non è nel corpo la radice del male, ma nella separazione dell'uomo da Dio. La tradizione biblica ha quindi una concezione unitaria dell'uomo e a forte caratterizzazione corporea. Questa concezione unitaria però viene ad implodere all'interno di un dualismo cosmico in cui all'opposizione spirito-corpo verrà associata quella di vita-morte. Il corpo è vivo in virtù dell'azione vivificatrice della ruah di Dio. Questo significa che il corpo è il regno della morte e lo spirito il regno della vita. Separati dalla ruah di Dio tutto è carne, tutto è materia, mutevole, corruttibile, imperfetta, impotente e morto. Siamo così giunti all'opposizione classica corpo-spirito.
Nella tradizione cristiana il corpo assume l'immagine di corpo da redimere. Gesù Cristo, figlio di Dio e quindi Dio esso stesso scende in terra per redimere l'umanità. Gesù ha paura della morte, il nemico di Dio, Gesù trema dinanzi ad esso.

Padre tutto ti è possibile, allontana da me questo calice
(Septuaginta, Marco, 14, 36)

E' il calice della morte quello di cui Gesù teme. La morte di Cristo è testimoniata da un grido inarticolato. E' il grido della morte. Con il cristianesimo non è più il corpo ad essere il disvalore e il negativo, ma la morte. Il nemico di Dio è la morte stessa, non la corporeità. La vittoria del Signore è vittoria sulla morte che può avvenire solo morendo davvero. In questa prospettiva di resurrezione, il cristianesimo farà della vita l'elemento positivo, il valore, e della morte l'elemento negativo, il disvalore .
Con Cartesio l'immagine occidentale di corpo trova la sua realizzazione. Riprendendo il dualismo platonico-cristiano anima e corpo, Cartesio priva il corpo del suo mondo e lo definirà sostanzialisticamente come res extensa. Il corpo è pensato come oggetto legato e dipendente dalle stesse leggi fisiche che regolano tutti gli oggetti del mondo. L'anima viene pensata invece come res cogitans, puro intelletto. L'Ego cogito cartesiano è privo di corporeità, è un io decorporeizzato.

Ma che cosa dunque sono Io? Una cosa che pensa. E che cos'è una cosa che pensa? E' una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, [...]. Io conosco evidentemente che non vi è nulla che mi sia più facile a conoscere del mio spirito.
(R. Descartes, Discours de la méthode)

Mente e corpo sono separati. Separato dalla mente il corpo acquista l'immagine di somma di parti senza interiorità. Corpo e mente non sono separati effettivamente, la separazione tra res cogitans e res extensa è una possibilità concettuale. Tra le due sostanze fa da mediatore la ghiandola pineale volta a ricomporre l'unità disfatta.

Esaminando le cose con cura, mi sembra di aver stabilito con evidenza che la parte del corpo in cui l'anima esercita immediatamente le sue funzione non è affatto il cuore, e nemmeno tutto il cervello, ma solo la parte più interna di questa, che è una certa ghiandola molto piccola, situata in mezzo alla sua sostanza, e sospesa sopra il condotto attraverso cui gli spiriti delle cavità interiori comunicano con quelli delle posteriori, in modo tale che i suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre, inversamente i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola .
(R. Descartes, Les passions de l'âme)

Con Cartesio il corpo viene ridotto a puro organismo e da questa concezione nasceranno le due grandi metafisiche: l'idealismo per cui il corpo è nulla e l'anima tutto e il materialismo per cui il corpo è tutto e l'anima nulla. Da questa concezione cartesiana siamo oggi portati a vedere il corpo come organismo oggettivo descrivibile biologicamente. E' la nascita della visione scientifica del corpo visto in relazione alle sue derivazioni fisico-chimiche che riducono il corpo a calcolo. Il corpo passa ad assere oggetto del mondo e le sue parti diventano “organi” e “funzioni. Questa è la nuova immagine occidentale del corpo che il campo medico ha imposto. E' l'idea di un corpo “spezzettabile” reso possibile dalla tecnica medica di trapianto ed espianto d'organi. Cuore, polmoni, fegato, epidermide, sperma, sangue e persino cellule vengono così considerati come parti spezzate della “cosa-corpo”, pezzi spezzati avente un valore d'uso, e talvolta di scambio. Ma il corpo è veramente una mera somma di parti, oppure è opportuno non identificare il corpo con le semplici parti di cui è composto? Edmund Husserl distingue tra il Leib (il corpo-soggetto, ovvero il corpo vissuto che apre la via alle relazioni interpersonali) e il Körper (il corpo-oggetto, ovvero la carne che l'anatomopatologo seziona. In questa concezioni il corpo, non le semplici parti, ha valore, il valore cioè è dato dal tutto che è più della semplice somma delle singole parti

martedì 9 gennaio 2007

Haiku 5


Lo sguardo perso
il rumore del mare
nella finestra

Haiku 4



Il banco sporco
per lezioni noiose
macchie e disegni

Haiku 3


Suoni sospesi
parole senza senso
non più parole

Aforisma del giorno


Omnis masturbatio est negatio

Detti ubriacanti di Francesco Salvetti


Se escludi il cibo tutto è epifenomeno

Il nichilismo è la constatazione che alla fine ogni cosa è un narcotico

lunedì 8 gennaio 2007

Aforisma del giorno


Cicciolina è vergine

E.T. tra i 100 film più belli della storia del cinema?!



Ho appena letto che il "prestigioso" (ah ah ah) settimanale americano "Time" ha stilato la classifica di quelli che dovrebbero essere i capolavori del cinema di tutti i tempi. A parte che considerare un qualsiasi giornale americano "prestigioso" è come dire "Tabù è un bel blog", ma poi dovete sentire che film annovera questa classifica. Alla ricerca di Nemo?! E.T?! Noo, a questo punto perchè non mettere anche un Vacanze di Natale e un film di Pierino?
Ma porca vacca, ma quel cretino di Colombo non poteva finire in India? A sto punto sono meglio i film-musical di Bombay, certo, meglio di E.t è anche la merda...E.T., che poi, quello che mi fa incazzare è che un film così stia vicino ad un vero capolavoro come Metropolis oppure Taxi driver. E' come mettere vicino Hegel a Putnam. Così ho pensato a quali fossero i film che più mi hanno segnato nel corso di questi anni, quelli che considero più vicino alla bellezza e alla poesia (caduta retorica). Premettendo che non voglio assolutamente fare una classifica, cosa secondo me impossibile nel campo artistico in generale, eccovi una lista veloce veloce di film da vedere assolutamente. Tenete presente che, come ho già detto, non si tratta di una classifica, i film non sono elencati secondo un ordine d'importanza. La classificazione segue solo il filo della memoria.

Iniziamo dai film giapponesi:

1. Zatoichi
2. Brother
3. Hana Bi
4. Sonatine
(questi quattro film sono tutti di Takeshi Kitano. Vi consiglio di iniziare da Brother, è il più "digeribile" per uno stomaco occidentale)
5. Tetsuo (film horror indipendente geniale!)
6. I sette samurai (poesia allo stato puro)
7. Kagemusha (sempre di Kurosawa)
8. A snake of June (bel film sul tema perversione sessuale, sottomissione-repressione)
9. Bullet ballet (bellissimo esempio di film indipendente giapponese, estremo)
10. Ichi the killer (non l'ho mai visto ma ne ho sentito parlare molto bene)

Veniamo ai film coreani:

1. OLDBOY
2. Lady vendetta
3. Mr. Vendetta
(appartengono alla trilogia della vendetta di Park Chan-Wook. Di una cattiveria estrema)
4. Ferro 3
5. Primavera, estate, autunno, inverno e...ancora primavera
6. L'arco
6. La samaritana
(sono tutti film di Kim Ki Duk, molto belli dal punto di vista visivo, contemplativi e poco parlati)

Passiamo ai film americani

1. Frankenstein Junior (Mel Brooks. Uno dei migliori film comici da sempre)
2. Hollywood party (con Peter Seller nel ruolo più spassoso della sua carriera)
3. Scemo e più scemo
4. Io, me e Irene
5. Tutti pazzi per Mary
(tutti film comici demenziali dei fratelli Farrely)
6. IL GRANDE LEBOWSKI (Geniale!!!!!!!!!!!!!)
7. Cattivo tenente (almeno un film di Abel Ferrara bisogna vedere, questo è significativo dato che esplora le tematiche presenti in tutti i suo film ossia colpa, peccato e redenzione all'interno di una cornice di corruzione e dolore)
8. American Beauty
9. Magnolia (il miglior film corale da sempre)
10. Babel
11. 21 grammi
(questi due sono di Inarritu, il miglio regista messicano vivente. Vi consiglio soprattutto Babel)
12. I tennembaum (bellissimo)
13. Funny Game (la banalità della violenza secondo Hanake)
14. Gosth dog (hagakure e mafia americana)
15. American history x (il migliore film sul fenomeno naziskin americano)

Veniamo ora ai film britannici:

1. Il senso della vita (uno dei migliori film comici da sempre. E' più serio di quanto possa apparire)
2. Il barone di Munchausen (fantasioso, splendide le scenografie)
3. Monty Piton alla ricerca del sacro Grahl (assurdo in modo assurdo)
4. Brian di Nazzareth (nessun commento)

Infine eccoti alcuni film italiani che meritano:

1. Amici miei
2. Amici miei parte seconda
3. Amici miei parte terza
4. Scusate il ritardo (di e con Massimo troisi)
5. Ricomincio da tre (sempre di Troisi)
6. Il pap'occhio (il miglior film comico di Benigni)
7. La grande abbuffata (NICHILISTA E DISTRUTTIVO)

Ovviamente ci sono ancora altri tantissimi film da elencare così passo a voi la palla, completate questa classifica. Buon lavoro

domenica 7 gennaio 2007

Coming soon


Il flusso di visitatori sta aumentando, forse per merito della foto osè, chissà, comuque per tenere vivo l'entusiasmo del mio amato pubblico di intellettuali ho deciso di fare un po' di anticipazioni e dire ufficialmente quello che potrete trovare nelle settimane future. Prima di tutto vorrei continuare la serie di commenti ai Capricci di Goya, è una cosa che ci tengo particolarmente, poi vorrei dedicare una rubrica a quello che io considero il più grande filosofo vivente, Filippo Bellissima. Uscirà a breve quindi la rubrica Critica della ragion Bellissima in cui cercherò di pubblicare tutto il corpus bellissimiano. Infine vorrei scrivere un po' di dialoghi satirici alla maniera leopardiana. Intitolerò questa sezione: Le operette immorali. Tra i dialoghi spiccheranno: Dialogo di Rocco Siffredi e di una vergine cattolica papista, Dialogo di Tyho Brahe e Tinto Brass, Dialogo del mago Gabriel e Yoghi e dei loro spiriti, Dialogo di un filosofo e di uno sportivo, infine Detti memorabili di un carnivoro contro il vegetarianesimo.
Coming soon quindi e restate con noi

Lo staff di Tabù

Aforisma del giorno


Siamo nani sulle spalle degli gnomi

sabato 6 gennaio 2007

Analisi e commento dei Capricci di Goya (1 parte)

Dato che ultimamente mi si sta accusando di deriva picaresca ho deciso di alzare un po’ i toni culturali del blog, proponendo al mio fedele pubblico di intellettuali una serie di commenti ai Capricci di Goya. Inizio con un Capriccio intitolato El si pronuncian y la mano alargan al priimero que llega, che tradotto significa: “Pronunciano il Sì e poi e poi porgono la mano al primo che arriva.

Piccolo riassunto sui Capricci di Goya. I Capricci è la serie di incisioni più famosa del maestro spagnolo (1746 – 1828). Composta da 80 tavole (acqueforti e acquetinte) di grande formato, viene realizzata nel 1799.
Il termine 'capricci' indica quei pensieri stravaganti che danno origine a raffigurazioni di fantasia, e che risente di un’influenza italiana (gran parte del 1770 lo passerà a Roma), a sottolineare il continuo interscambio culturale che Goya ebbe col nostro paese.
Caratterizzati da una satira pungente e a volte grottesca, descrivono con grande lucidità tutti i mali, i pregiudizi, gli inganni e le menzogne della società spagnola dell’epoca, non tralasciando nessuna delle sue classi, da quelle più povere, alla Chiesa, alla nobiltà, persino alla famiglia reale.
Come ebbe modo di dire lo stesso Goya, nel Diario de Madrid del 6 febbraio 1799: “L'autore, essendo persuaso del fatto che la censura degli errori e dei vizi umani (benché propria dell'Eloquenza e della Poesia) possa anche essere oggetto della Pittura, ha scelto come argomenti adatti alla sua opera, tra la moltitudine di stravaganze e falli comuni di ogni società civile, e tra i pregiudizi e menzogne popolari, autorizzati dalla consuetudine, dall'ignoranza o dall'interesse, quelli che ha ritenuto più idonei a fornir materia per il ridicolo e a esercitare allo stesso tempo la fantasia dell'artefice".
La loro pubblicazione procurò un immediato e sdegnato scandalo, dovuto al fatto che molti vi si riconobbero ritratti, al punto che dovette intervenire la Santa Inquisizione impedendo la circolazione delle stampe ritenute blasfeme e scandalose.
Nei Capricci, Goya esplora un vasto panorama di comportamenti, dalla frivolezza delle giovani fanciulle che sperano di accalappiare un ricco marito spesso con l’aiuto di donne più anziane che dispensano loro consigli, alle condotte viziose degli uomini di potere invischiati in losche vicende di corruzione e prostituzione, alla vanità della nobiltà, spesso rappresentata con delle maschere nel loro continuo voler apparire ciò che non sono, o la cattiva educazione impartita da genitori poco accorti ai loro bambini.
Un grande capitolo viene dedicato alla stregoneria, molto spesso ritratta nella sua più cruda bestialità; ne è un esempio la tavola Soffia, dove alcuni bambini vengono mangiati durante una festa notturna oppure in A caccia di denti dove una strega cava i denti ad un impiccato.
La fortuna immediata dei Capricci fu scarsa, al punto che Goya, dalla cui vendita sperava in un ottimo guadagno, si vide costretto a cedere l’intera prima tiratura al Re Carlo IV, in cambio di una borsa di studio per il figlio Javier.
Il successo della serie aumentò con la seconda edizione del 1855, fino a diventare una delle opere grafiche più importanti e celebrate della storia dell’arte.

Veniamo ora al nostro Capriccio.
Al centro della rappresentazione artistica abbiamo la sposa che tende la mano allo sposo. La donna è vestita di bianco, come tradizione, mentre lo sposo in abito scuro, sempre secondo tradizione. Il bianco del vestito della donna così gioca in contrasto con il nero del vestito del marito, un nero che si staglia con l’oscurità dello sfondo. Alle spalle dei due abbiamo la folla urlante che partecipa chiassosamente al lauto evento. Dietro alla giovane possiamo notare due vecchie. La prima sorregge i corpi dei due sposi, quasi a voler essere metafora dell’esperienza che sorregge il matrimonio, la seconda prega con viso austero per il futuro della coppia. Con le vecchie Goya gioca con il tempo creando un ulteriore contrasto, stavolta non più cromatico ma semantico - temporale. Da una parte, più precisamente nel centro dell’incisione, c’è il presente, raffigurato dalla coppia di sposi, dall’altra parte c’è il futuro, rappresentato delle vecchie, brutte e ormai prossime alla morte. Il titolo è significativo: “Pronunciano il sì e poi porgono la mano al primo che arriva”. Ed è proprio così. La natura femminile non è affatto cambiata dal 1799. Arrivati ad una certa età (30 anni) le donne diventano molto più elastiche con i loro gusti e fanno scelte più tolleranti. Io questo lo noto chiaramente. Prima dei trenta la donne vivono scappatelle, sono molto rigide e schizzinose con i loro partner, aspettano il principe azzurro. Quando arrivano ai trenta le cose incominciano a cambiare. L’età avanza e il principe azzurro sembra essere caduto a cavallo. Trenta anni e ancora nemmeno un bambino, intanto il corpo diventa sempre meno pronto per sopportare una salutare gravidanza. L’unico rimedio è “porre la mano al primo che arriva”. Fanculo l’amore, fanculo la bellezza, bastano i soldi e lo sperma, basta porre la mano al primo che arriva.
Goya…che genio.

venerdì 5 gennaio 2007

Prima e seconda legge di Vine

1. In una fila chi ti precede impiegherà sempre un tempo maggiore a quanto impiegherai successivamente tu.

2. Se speri che una cosa accada, questa non accadrà

Corollario: Gli accadimenti sono degli imprevisti

Calo di visite

Ultimamente il mio blog sta subendo un calo di visite, così ho pensato di rallegrare il mio caro pubblico di visitatori concedendo una bellissima foto osè.
Buona visione

Lo staff di Tabù


Aforisma e contro aforisma


Se puoi contare i tuoi soldi, non hai un miliardo di dollari (Paul Getty)

Se non riesci a contare i tuoi soldi, o hai un miliardo di dollari o non hai nemmeno un dollaro da contare (Daniele Foti)

giovedì 4 gennaio 2007

Un aforisma



Le questioni di principio sono questioni stupide

mercoledì 3 gennaio 2007

Haiku 2



Quel giorno a teatro
e come una monade
insieme tu ed io

martedì 2 gennaio 2007

Haiku



Ancora cado
rivedo l'assoluto
ritorno da te

L'oltre e l'ancora



Ieri notte era capodanno. Devo dire che fin da bambino ho sempre trovato questa festa come particolarmente triste, forse per via dei trenini, forse per l’inutilità dei botti. Ogni volta che penso alle feste di capodanno mi viene in mente l’immagine grottesca di quella che si trova in Fantozzi dove tutti gli impiegati ballano con i cappellini colorati di plastica trasparente e concludono il cenone con la polenta. Che tristezza infinita. Mi viene da pensare al concetto pascaliano di divertissement, il divertimento come diversivo, il “diversimento”. Ci divertiamo per non pensare alla nostra miseria, alla nostra condizione di esseri mortali, fragili e deboli. Ci divertiamo per eludere la nostra infelicità. La scena della festa di capodanno che si trova in Fantozzi è interessante per questo motivo: mette in scena la situazione del divertissement. La festa è divertente ma triste allo stesso tempo.
C’è qualcosa però di peculiare nel capodanno, una cosa che fa del capodanno una festa diversa da tutte le altre. Questa caratteristica è la trasgressione come regola. Di per se in ogni festa c’è una matrice di trasgressione, mi vengono in mente le feste di addio al celibato, oppure le feste di laurea. Ma perché il capodanno sembra così diverso da queste feste? E’ perché si festeggia l’anno nuovo? Non credo, anzi, sono convinto che il festeggiamento del nuovo anno sia solo un inutile cornice, d’altronde bisogna veramente essere stupidi se si è felici perché inizia un nuovo anno. Cambia qualcosa nella vita delle persone dal 31 dicembre 2006 al 1 gennaio 2007?
In realtà più ci penso e più capisco che il capodanno è la festa dell’oltre e dell’ancora. Avete presente quando al liceo si ritornava in classe dopo la pausa delle vacanze natalizie? Credo che a tutti sia capitato di sentirsi fare questa domanda: “Allora, cosa hai fatto a capodanno?” Si tratta di una domanda apparentemente ingenua e che non ha nulla a che fare con l’interesse che l’altro muove nei nostri confronti. Con questa domanda si pone una gara. In questa gara “vince” il più trasgressivo.
“Io ho fatto le 3”
“Io le 4”
“Io le 5”
“Ragazzi ho vinto io, non sono nemmeno andato a dormire oggi”
Ooooh, il re della notte che vince sul dato temporale. Ma non è solo quello il criterio per aggiudicarsi il titolo del “più trasgressivo”, c’è anche il criterio di scopata e di tasso alcolico. Il vincitore è sempre qualcuno che arriva a non dormire, ad essere ubriaco da fare schifo e che si è scopato la cicciabomba-nave scuola di turno. Ogni anno però la gara è sempre più agguerrita e così la trasgressione si spinge ai livelli dell’infinito, oltre e ancora. Bisogna superarsi, eccedere ancora, andare oltre. La trasgressione è proprio questo, un delirio dell’infinito. “Volli, ancora volli, sempre di più volli”. La trasgressione ci precipita nel baratro dell’eterno rimpiazzo. Il piacere deve essere superato da un altro di maggiore intensità, e ancora e ancora.
Ma questa trasgressione è noia perché nella ricerca di un piacere sempre più grande ogni grandezza risulta uguale a ogni altra, perché questo piacere è solo grande, nulla più. La trasgressione quindi è la noia consapevole di se stessa, consapevole del fatto che l’infinito ci è oltre e di conseguenza non ci rimane che il nulla.
Trasgressione viene dalla radice latina transgressus, da cui il participio passato trasgredi con il significato di “al di là”. Già etimologicamente possiamo capire come la trasgressione implichi una meta irraggiungibile, un punto inesistente che continua ad avanzare. Nella visione dell’impossibile raggiungimento della meta cogliamo il nulla, la noia che ci pervade. Questa noia è sia il motore immobile che muove il principio trasgressista sia il principio che ne alimenta la dinamica stessa.
Nell’impossibilità di appagarci pienamente la trasgressione si presenta come tras(re)gressione, un andar indietro e non avanti. Siamo un ruota che scende pensando di salire, siamo il nulla che ci circonda e il pensiero che cerca di non pensare a questo. Nell’oltre e l’ancora noi divergiamo la nostra condizione di ammalati, ci divertiamo per non pensare, trasgrediamo per evitare la noia.
La trasgressione entra anche nella sfera della sessualità. A tutti sarà capitato di incontrare il cretino di turno che inizia con la domanda più inutile di questa terra: “Qual è il posto più strano in cui hai fatto l’amore?” Che interesse può suscitare questa domanda? E in effetti a nessuno interessa dove tu o un altro siete andati a scopare, ciò che interessa è l’agone, la gara in cui vince chi l’ha fatto nel posto più strano, la gara in cui vince il più trasgressivo. Siamo così annoiati che oramai per eccitarci dobbiamo trasgredire sempre di più. Una volta bastava la visione di un paio di belle gambe per suscitarsi desiderio, ora tutto ci è dato subito e così tutto diventa noioso. Il vedo e non vedo ha lasciato spazio al “vedo e lo vedo”, le ragazzine esibiscono i loro organi sessuali con così tanta non curanza che questa visione è finita per non suscitare più alcun interesse. Si vedono più passere che colombe, da qui l’impotenza del maschio attuale. Siamo la generazione della rivoluzione asessuata, siamo uomini che non riescono più ad eccitarsi, manca il processo di eccitamento. Quando eravamo giovani il desiderio sessuale era il cammino che portavo l’uomo a spogliare la donna, ora che siamo vecchi la donna si spoglia subito e senza motivo. La nudità della donna è diventato un fatto noioso, scontato e prevedibile.
Per supplire a questa impotenza l’uomo deve trasgredire. Ecco spiegato il boom degli stupri di questo anno. Lo stupro rappresenta oggi per molti il tentativo di eliminare questa impotenza, il tentativo di sottomettere la donna e ribadire la propria mascolinità. Con lo stupro l’uomo cerca di mascolinizzarsi. Questa però è trasgressione (oltre che crimine) e come tale è inserito nella dinamica della tras(re)gressione. Lo stupro apre alla perversione che altro non è che la dinamica dell’oltre e dell’ancora nella sfera sessuale. Le perversioni sono impotenze sessuali scaturite dalla noia sessuale. Di questa noia e del tentativo di trasgredirla Søren Kirkegaard ne parla a proposito dello stadio estetico del Don Giovanni. Il Don Giovanni di Kirkegaard è l’uomo che vive una vita puramente estetica, è il seduttore che dedica la propria intera esistenza alla conquista dell'animo femminile per il puro piacere della conquista stessa. La sua vita è incentrata sul desiderio e sul godimento, la sua vita non esce dalla sfera della sensualità. Il seduttore vive nell'elemento dell'immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva,non si impegna mai in nulla, la sua filosofia è il motto graziano del "carpe diem".La vita dell'esteta è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri:egli passa da un'esperienza all'altra senza che quella precedente lasci una traccia di sé su quella successiva,senza che la sua esistenza abbia una storia. L'unico elemento costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e del rifiuto della ripetizione,considerata come fatale principio di noia. Il suo unico compito è la ricerca dell'eccezionalità, nell' esasperata volontà di diversificarsi da tutti gli altri individui,così come da tutte le proprie esperienza passate. Per Kirkegaard questa vita incentrata sulla ricerca della eccezionalità non può portare altro che alla disperazione e ad abbracciare una forma di vita non più estetica ma etica. La vita etica è quella del buon marito di famiglia, è la vita che pianifica e abbraccia la solidità della continuità. Egli conferma in ogni momento la sua scelta,tornando a scegliere in ogni istante ciò che ha già scelto per sempre. L'uomo etico, a differenza dell'esteta,non teme dunque la ripetizione,anzi la ama,vedendo in essa una continua riconferma della sua decisione iniziale.
Il secondo stadio, quello etico, nel nostro mondo non si da più, questo perché la vita oggi si è ridotta a estetica. “Se prima eravamo monadi, senza porte ne finestre, ora siamo noi stessi porte e finestre, esterni senza interno”. Manca l’interiorità, tutto è estetica, tutto e noia e trasgressione. Oltre e ancora.