giovedì 16 agosto 2007

Quel che mi sovvien a del mio cor rimembramento


Quel che mi sovvien a del mio cor rimembramento
Dell’aere fuggente, del sorriso tra la pelle
Di ogni momento atteso nel ripensamento
Di quando madonna mia amare mi velle

Adesso dal paradiso nell’infero scento
E di quei attimi di placito spiro solo
del dì ito una languida umbra memento
che asconde la vida come la nebula il molo

Tedio di vivere, sia questa l’amara sorte
Che ad ogni istante eterno tempo cumresponde
Tanto da appassir come una subitanea morte

Il palpito d’amor che pria a noi ci sopraggiunse
Or vivi nei mie sogni come labile dea
E nelle lucine notti il mio cor ti raggiunge

sabato 11 agosto 2007

Coito ergo sum

Mettiamo caso che il vostro pene vi parli e che a poco a poco prenda il controllo della vostra vita, cosa pensereste? Subordinati pure al vostro pene, sembra assurdo vero? Mettiamo pure caso che il vostro “arnese” sia gigantesco, enorme, sproporzionato nell’eccesso e che risulti più prorompente del vostro intero cervello. Un pene enorme e una testa piccola, come vi sentireste?
Non so voi ma io mi sentirei superiore a tutti gli altri uomini, eppure voi non riuscite a sentire un senso di superiorità, anzi, vi sentite addirittura inferiori, sottomessi a tutte le altre persone, nonostante le dimensioni del sesso.
Desublimati, ecco cosa siete. Così si sente Rico, il protagonista del libro Io e Lui di Moravia. Rico è un intellettuale, un uomo di cultura, un velleitario con aspirazioni registiche. Fisicamente non è un granché, diciamolo, è pure brutto: basso, calvo, grassoccio, non ha nulla di bello, eppure ha un uccello enorme, prorompente a tal punto che riesce pure a comunicare con il suo Io. “Lui”, il pene, è l’esatto contrario, è alto, longilineo e a differenza sua non ha nessuna aspirazione culturale, per lui conta solo l’azione. Rico rappresenta la sfera psicologica, la Ragione intesa leopardianamente come arresto, morte. Rico vive nell’ossessione del suo pene, sente che in lui si sia rotto qualcosa, si sente cioè scisso. Tra Rico e Lui esiste un dialogo. Rico non si parla, Rico parla all’altro, a lui. Io e Lui formano due persone differenti, non sono un Noi, sono un Io e un Lui che vivono ormai dialogicamente. Se fossero un Noi ci sarebbe solo un monologo ma niente monologhi nella vita di Rico. Da una parte la ragione, l’Io, la cultura quindi il pensiero quindi l’arresto e dall’altra la sessualità, Lui, la Natura quindi il corpo quindi l’azione.
Rico è un fallito, Rico si sente costantemente un fallito. Fallito nel matrimonio, separato da una moglie ormai irriconoscibile per quanto si sia lasciata andare; fallito nelle relazioni sociali, fallito a lavoro. Il senso di inferiorità è dovuto in lui dalla consapevolezza di essere un desublimato.
Che cos’è la desublimazione? Partiamo dalla sublimazione. Secondo Freud tutte le creazioni umane, la scienza, la filosofia, l’arte, etc. sono prodotte dalla pulsione sessuale benché sembrino molto lontane da questa loro origine. Ecco la sublimazione consiste proprio in questo mascheramento, nell’indirizzare tutte le nostre energie sessuali in ambiti considerati socialmente più utili. Il pittore quindi non è altro che un erotomane che al posto di darsi al sesso incanala tutta la sua passione fisica all’interno della creazione artistica. Questo nel sublimato. Ma Rico è un desublimato, Rico cioè non riesce più a incanalare la pulsione sessuale all’interno del campo culturale, tutto questo per colpa di Lui. La scissione che si è venuta a creare tra lui e Lui ha compromesso irreparabilmente la possibilità del mascheramento. Ecco perché Rico è un fallito, è scisso. L’unica possibilità per lui è ritornare all’unità. Rico e Lui litigano, non si accordano mai su nulla: Rico vuole fare una cosa ma Lui lo spinge per un'altra; se soltanto riuscissero a mettersi d’accordo allora la loro scissione troverebbe l’unità tanto agognata e l’Io potrebbe finalmente smettere di essere un fallito.

Il libro è molto divertente, i dialoghi tra Rico e il suo pene poi sono qualcosa di assolutamente geniale, certe disquisizioni sulla masturbazione e i feticismi hanno un non so che di brillante, ma il romanzo non è affatto frivolo e superficiale. Io e Lui è un romanzo molto serio, che discute sulla frattura dell’uomo moderno, su come oggi sia avvenuta una liberazione sessuale talmente liberativa che ha portato ad una palingenesi dei fini.
Nel 1969 Herbert Marcuse scrisse:

«La morale sessuale è stata liberalizzata in alta misura; inoltre la sessualità viene propagandata come stimolo commerciale, voce attiva negli affari e simbolo di status»

Siamo stati così liberati che la libertà stessa ha creato una prigione. Parliamo di sesso, fin troppo. Parliamo così tanto da risultare tutti come dei Rico, desublimati, ragione che lotta con il desiderio. Non si riesce più a sublimare le passioni, le passioni stesse sono diventate troppo palesi per poter risultare ancora appetibili. Una donna nuda non fa più gola, parlare di fellatio è ormai la norma.
Mi viene in mente “sex and the city”. Ho visto una puntata è per 60 minuti avrò sentito la parola vagina non meno di 60 volte. Vagina, vagina, vagina, vagina, sembrava quasi che si parlasse ci caffèlatte. “Come sta bene la mia vagina” – “Quanto è buono il caffèlatte” – “Ho la vagina bagnata” – “Scotta sta tazza di caffèlatte”.
Non voglio fare il moralista, non me ne frega niente se la gente ormai ama così tanto parlare delle loro vagine, il punto è un altro: più se ne parla e più si rimane imprigionati nella verbalità.
Vi ricordate le scuole medie? Chi non ha mai avuto come compagno di classe il caro Ciccio, quello con la scorta di giornalini porno nello zaino che sapeva così tante cose sul sesso che in confronto il ginecologo è solo un novellino alle prime armi? Il caro Ciccio, quello che parlava tanto ma capivi che mai aveva fatto, mai aveva osato.
La parola è il pensiero e il pensiero è l’arresto. Ho sentito parlare di “rivoluzione asessuale”, ecco il termine significa proprio questo, l’incapacità ora per i ragazzi nell’approcciarsi al di là di un livello verbale all’altro sesso.
Desublimati, prigionieri della nostra sessualità verbale.

domenica 22 luglio 2007

Haiku 11

Dormi beata.

Ora aspetto il mattino,

dolce Agostino.

giovedì 12 luglio 2007

I ciechi provano vergogna per la loro nudità?



«Erano nudi e non si vergognavano» (Genesi 2,25)

Qual è lo statuto ontologico della vergogna? Perché Adamo ed Eva prima del peccato originale non provavano vergogna per la loro nudità? La vergogna ha a che fare con il corpo o con lo spirito?
Cercherò di rispondere a queste domande facendo riferimento a due autori che pongono il tema della vergogna in due domini separati, da una parte Agostino e il tema della vergogna come conseguenza del peccato originale, e dall’altra Sartre con il tema della vergogna e il problema dell’esistenza d’altri, da una parte lo spirito e il dominio della morale (Agostino) e dall’altra il corpo e il dominio fenomenico (Sartre).

Nel capitolo 17 del Quattordicesimo libro del De civitate Dei, Agostino si interroga sul tema della libidine come conseguenza del peccato originale in relazione al pudore. La domanda che muove questo capitolo è cioè: “Perché Adamo ed Eva incominciarono a provare pudore per la loro nudità?”
La Genesi ci dice che Adamo ed Eva prima del peccato erano nudi senza vergognarsi di ciò. Secondo Agostino l’assenza di pudore nello stato edenico era garantito non dal fatto che la nudità fosse a loro sconosciuta, ma perché la libidine non stimolava ancora gli organi genitali. Sappiamo che prima del peccato originale Adamo ed Eva godevano dello stato di rettitudine e cioè di giustizia originale che consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, delle facoltà inferiori alla ragione e del dominio del corpo da parte dell’anima. La rettitudine si caratterizzava in rapporti di subordinazione. Tutto era finalizzato e orientato alla contemplazione di Dio garantita dalla componente razionale dominante su tutte le altre facoltà umane. In questo consisteva la perfezione di Adamo, in questo consisteva la sua giustizia. La giustizia era fondata su un rapporto interno al soggetto-Adamo fondato da rapporti di sottomissione finalizzati alla contemplazione del fine ultimo Dio. A seguito del peccato Adamo ed Eva perdono la giustizia originale e sperimentano la disubbidienza. Si tratta di una disubbidienza interiore che rompe il rapporto di identità tra volere, dovere ed essere ma anche i rapporti di subordinazione che garantivano la perfezione originale adamitica: la ragione non dominerà più le facoltà inferiori, il corpo non sarà più dominato dalla ragione e l’anima non contemplerà più perfettamente Dio. Il corpo diventa carnale nella carne, è un corpo erotico, concupiscente che ha bisogno di essere coperto. Subito dopo aver peccato Adamo ed Eva infatti si accorgono di essere nudi e “intrecciano foglie di fico e se ne fecero cinture”, l’aprire gli occhi di cui si fa menzione nella Genesi non è un risveglio oculare, è il risveglio della libido. Libido viene da Libet e indica un piacere sfrenato, incontrollabile. La libidine è appunto il sintomo più eclatante dell’inordatio dovuta alla colpa adamitica. I genitali si muovono ora senza volontà, la volontà non governa più niente.
La vergogna per Agostino nasce dalla libidine e la libidine è conseguenza della disubbidienze, colpa e pena dei primi due uomini. La vergogna ha a che fare con lo spirito, con uno spirito che non riesce più a controllare la carne. La vergogna diventa dunque un fatto morale. Se Adamo ed Eva non avessero peccato avrebbero continuato a vivere nudi e senza vergogna, perché il loro corpo continuerebbe ad essere spirituale.
Ma se la vergogna è sintomo della libidine questo significa due cose:

Più una persona prova pudore e più sente la libidine. In questo senso la persona pudica è la persona più lussuriosa, perché sente maggiormente la carnalità del suo corpo. Il pudore è quindi la veste della carnalità, è la cintura che costringe la libidine a non sfuggire di controllo. La pudicizia è maschera della concupiscenza.
La vergogna non è un fatto oculare, non ha nulla a che fare con la vista e con lo sguardo altrui, pertanto anche un cieco può provare vergogna per la sua nudità.

Ma davvero un cieco prova vergogna per la sua nudità?
Secondo Sarte la vergogna è innanzitutto coscienza di qualcosa. Questo qualcosa sono io. Io ho vergogna del mio essere perché scopro qualcosa del mio essere che prima mi sfuggiva. Ma la coscienza della vergogna non è autocoscienza per Sartre, non è riflessiva. Non è la coscienza di me per me, ma è la coscienza posizionale di me verso un altro. Io mi vergogno di fronte a qualcuno.

«(…) la vergogna nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno» (Sartre, L’essere e il nulla)

Sono in macchina, il semaforo è rosso e nell’attesa mi metto le dita nel naso. Mi giro e scopro che l’automobilista che mi sta di fianco mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e provo vergogna.
La vergogna è quindi la coscienza di me di come appaio all’altro, per questo Sartre ne parla proprio nel capitolo dedicato al problema dell’alter ego. Mi vergogna perché sono visto, perché sono oggetto dello sguardo altrui. In questo senso la vergogna è riconoscimento: riconosco di essere come altri mi vede. Da soggetto della visione divento oggetto dello sguardo, è l’oggettivazione della soggettività che si pone nell’essere nel campo visivo altrui. Due conseguenze:

Non posso provare vergogna senza l’altro, non esiste cioè una vergogna in solitudine.
La vergogna è un fatto fenomenico e cioè di apparizione visivo all’altro. In questo senso sono due le condizioni della vergogna: l’altro e lo sguardo. Un cieco quindi non può provare vergogna per la sua nudità non in quanto sfugge allo sguardo altrui (il cieco non mi vede ma io lo posso vedere) ma in quanto non può riconoscere di essere visto. Fisso un cieco, il cieco diventa oggetto del mio sguardo ma che cosa sente il cieco? Continuerà ad essere soggetto autonomo. Il cieco è soggetto assoluto in quanto è svincolato dalla possibilità di riconoscere di essere veduto.

Eccoci quindi arrivati alla conclusione di questa riflessione. Per Agostino d’Ipponia la vergogna è un fatto morale dovuto alla perdita della rettitudine da parte del peccato di Adamo ed Eva. La perdita della giustizia originale ha comportato la disubbidienza interiore e il corpo diventa carnale nella carne sperimentando la libidine. La consapevolezza della carnalità spinge l’uomo al pudore e la vergogna si costituisce per tanto come riconoscimento della libidine genitale.
Per Sartre invece la vergogna è un fatto fenomenico dovuto al riconoscimento di essere come altri mi vede. Non un fatto morale, ma un fatto di visione. Il riconoscimento della vergogna non è più riconoscimento genitale ma visivo e il dominio della vergogna si sposta dalla morale al problema fenomenologico dell’altro.
Nell’ambito morale anche il cieco prova vergogna perché riconosce comunque la concupiscenza del suo corpo. Nell’ambito fenomenologico il cieco non può provare vergogna perché non riesce a riconoscere lo sguardo fisso su di sé. Ma chi ha ragione, Agostino o Sartre?

martedì 3 luglio 2007

Recensione Transformers



«In principio era il cubo»

Geniale…l’apertura del film è davvero strepitosa: universo, comete e robaccia galattica fluttuante qua e là e dopo…lo zoom della telecamera inquadra un mega cubo di Rubik volteggiare per il cosmo come l’osso del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Ma Michael Bay non è Kubrick, e si vede. Domanda: è possibile fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un gigantesco cubo che si trova sulla terra? No, non è possibile a meno non di fare un film ridicolo. Transformers è un film davvero ridicolo, talmente ridicolo che risulta così geniale che nemmeno Beckett stesso oserebbe tanto, un concentrato di frasi deliranti piene di non-senso, farcite qua e là con della retorica robotica.
Ma veniamo più nello specifico e cerchiamo di capire i motivi per cui questo film non funziona e come, di fatto, non potrebbe mai funzionare. Primo, come già detto è impossibile fare un film su dei robottoni che per giunta si trasformano in macchine, cellulari e altra roba tecnologica. Corollario di questo è che se uno va a guardare, gli stessi Transformers nascono come prodotto ludico degni anni Ottanta. Prima arriva il giocattolo, poi, sulla scia del successo commerciale di questi, nasce il cartone. Seduto su una poltroncina il piccolo Steven Spielberg, allora ragazzino spastico con problemi di socializzazione sogna alieni nani dai grandi occhioni tondi e super robot in cerca di cubi giganti. Passa il tempo e Spielberg cresce. Diventa regista e sforna uno dopo l’altro una serie di film block-buster campioni d’incassi, fino ad arrivare al 2007. Vecchierello e arrivato alla gloria della carriera il nostro caro Spielberg chiama il suo compare Michael Bay, famoso per aver diretto film muscolosi e ipervitaminici, insomma, quelli tutto sparatorie e sparatroie.
Suona il telefono. Primo squillo….Secondo squillo…terzo squillo. Rispondono:

«Pronto Mike? Sono Steve»
«Uè bella, come brutta fratè? (classico modo d’esprimersi dei registi g-giovani)»
«Inzomma, ho preso la gonorrea (fa molto g-giovane la malattia venerea)…senti, ti volevo chiedere, ti andrebbe di fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un cubo gigante? Produco io»
«Un film su dei robottoni venuti sulla terra per un cubo gigante?! Cazzo, questa è davvero un idea geniale, ma come fai a pensare a certe cose? Dio mio, sei un fottuto Hegel del cazzo. Ci sto»

Michael Bay ci sta e dirige il film che viene terminato nel 2007 arrivando a spendere di budget una cifra complessiva di 143 milioni di dollari, una cosa come 8 volte il prodotto interno lordo annuo del Burkina Faso, e non sto scherzando. Il film esce nelle sale il 26 giugno e il 2 luglio vado a vederlo. Mi siedo, bevo un po’ d’acqua e mi sorbisco la pubblicità, infine inizia il film. 144 minuti di pisolate, urla e gente che corre e si dimena, macchine che scoppiano, case che scoppiano, carri armati che scoppiano e persone che, scoppiano. Insomma, esplode tutto, ma la cosa divertente è che nessuno sanguina, nessuno muore, solo un gran casino.
Oggi mi sono collegato ad internet e ho letto le recensioni, sono rimasto basito. Giudizio unanime: è un capolavoro. Allora mi sono chiesto: che cos’è che non va? sono io che non faccio testo o la gente si è rincoglionita davvero? Il mio ego mi spinge per quest’ultima, ma è soprattutto il mio cervello che si rifiuta di considerare Transformers un bel film. Secondo la maggioranza dei recensori il film è bello perché molto coinvolgente, a parte la mancanza pressoché totale di una trama, ma sono gli stessi recensori che si rifiutano di considerare opere artistiche i film porno, allora mi domando, che differenza c’è tra Transformers e un film di Rocco Siffredi? Sono arrivato ad una conclusione: nessuna. Non esiste nessuna differenza rilevante tale da poter porre un distinguo tra i due generi di film, perché Transformer, al di là della semplice ironia è davvero pornografico, ma non nel senso lato del termine, intendo nel senso stretto. Che cosa distingue un film porno da un film erotico? Non l’esibizione genitale, nemmeno di fatto l’esplicità delle scene, ma è la ripetitività della struttura narrativa. Un film porno è strutturato sempre allo stesso modo: c’è lei, c’è lui, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono persone umane, e si svolge l’atto sessuale. Transformers è strutturato allo stesso modo: c’è un robot buono, c’è un robot cattivo, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono robot, e si svolge la battaglia, per 144 minuti. Il risultato è sfiancante e noioso. Avete presente Matrix reloaded, il seguito di Matrix? Le continue zuffe che ad una certa vi fanno alzare dalla poltrone e dire: “E basta! Avete rotto er cazzo!”. Ecco, è la stessa cosa. Ma a sto punto preferisco vedere un film porno, almeno per i primi dieci minuti è gratificante, mentre Transformer è noioso fin dall’inizio.
Buona visione (non andatelo a vedere)

mercoledì 13 giugno 2007

Adamo rivoluzionario

Pochi giorni fa mi è stato domandato se, e che tipo di interpretazione politica poteva essere data al problema teologico del peccato originale, in termini semplici, com’è possibile dare una teoria politica al peccato compiuto da Adamo ed Eva. La risposta che si voleva che dessi riguardava l’idea che lo stato edenico costituiva una prospettiva utopica di società umana da ripristinare. Considero questa linea interpretativa un po’ banale, così voglio ora restituirvi quello che io penso (in realtà nemmeno, è giusto per polemica contro la tradizione) possa costituire il fondamento politico del peccato originale.

Prima di tutto è essenziale soffermarci sulla condizione di innocenza di cui godevano Adamo ed Eva prima del peccato. Nella questione 95 della Summa Theologiae San Tommaso scrive che Adamo fu creato retto, in perfetto accordo con quanto contenuto nel versetto 7, 30 dell’Ecclesiaste: Deus fecit hominem rectum. Ora, questa rectitudo di cui parla Tommaso consiste nella giustizia originale (di cui parla Sant’Anselmo) e cioè nella perfetta corrispondenza tra essere e dovere, per cui Adamo, in quanto uomo retto, era ciò che doveva essere. San Tommaso riprende il discorso anselmiano definendo la rettitudine di Adamo con la frase «Erat enim rectitudo secundum hoc, quod ratio subdebatur Deo, rationi vero inferiores vires et animae corpus» e cioè, la rettitudine di Adamo consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, delle facoltà inferiori alla ragione e del dominio del corpo da parte dell’anima. La rettitudine si caratterizzava in rapporti di subordinazione. Tutto era finalizzato e orientato alla contemplazione di Dio garantita dalla componente razionale dominante su tutte le altre facoltà umane. In questo consisteva la perfezione di Adamo, in questo consisteva la sua giustizia. La giustizia era fondata su un rapporto interno al soggetto-Adamo fondato da rapporti di sottomissione finalizzati alla contemplazione del fine ultimo Dio.
In virtù del dominio delle facoltà inferiori da parte della ragione Adamo era impassibile, non provava emozioni come tristezza e speranza poiché, a quanto ci dice Sant’Agostino nel libro XIV del De civitate Dei, Adamo ed Eva godevano attualmente di ogni cosa, per questo il desiderio era a loro sconosciuto. La volontà di Adamo era inoltre perfetta, non indebolita e sappiamo che le passioni secondo Agostino sono defezioni della volontà, espressioni di una volontà indebolita. Quindi oltre ad essere retto Adamo era anche privo di passioni, a parte quelle in accordo con la regola della ragione e cioè la gioia e l’amore.
Nella Genesi (2, 17; 3, 1-24) la condizione di perfezione e giustizia di Adamo venne meno a causa del peccato originale. Si tratta ora di capire che tipo di peccato fu il peccato commesso da Adamo.
Dalla lettura di Agostino sappiamo che il peccato di Adamo non fu un peccato di gola e cioè il semplice desiderio di un bene materiale, Adamo non provava desideri materiali, era impassibile, per tanto il desiderio di Adamo fu di tipo spirituale. Fu un peccato di superbia, fu la volontà di volere essere come dei, di volersi allontanare da Dio per essere autonomi. La volontà di Adamo fu volontà di autonomia, di essere legge di se stesso, di non essere più sottomesso alla Legge, a Dio, fu il desiderio di Libertà che provocò la più grave schiavitù: la morte e il lavoro.
Sappiamo sempre da Agostino che Dio punì Adamo ed Eva rimettendo a loro come pena la loro stessa colpa e cioè la disobbedienza. Da questo momento la vita di Adamo ed Eva sarà costituita dalla disobbedienza interiore (l’inordatio di cui parla San Tommaso). Questa disobbedienza interiore è la privazione della giustizia originale e cioè della rettitudine. Non ci sarà più corrispondenza tra volere, dovere ed essere. Poiché Adamo volle cioè che non poteva, da ora vorrà sempre cioè che non potrà mai. Si tratta di una volontà condannata alla frustrazione eterna. La disobbedienza rompe il rapporto di identità tra volere, dovere ed essere ma anche dei rapporti di subordinazione che garantivano la perfezione originale adamitica: la ragione non dominerà più le facoltà inferiori, il corpo non sarà più dominato dalla ragione e l’anima non contemplerà più perfettamente Dio. Il corpo diventa carnale nella carne, è un corpo erotico, concupiscente che ha bisogno di essere coperto. Subito dopo aver peccato Adamo ed Eva infatti si accorgono di essere nudi e “intrecciano foglie di fico e se ne fecero cinture”, l’aprire gli occhi di cui si fa menzione nella Genesi non è un risveglio oculare, è il risveglio della libido. Libido viene da Libet e indica un piacere sfrenato, incontrollabile. La libidine è appunto il sintomo più eclatante dell’inordatio dovuta alla colpa adamitica. I genitali si muovono ora senza volontà, la volontà non governa più niente. Per questo Adamo da ora proverà le passioni, la sua volontà è indebolita, per tanto da ora il corpo sarà corruttibile in quanto l’anima non riuscirà più a dominare la carne.

Detto questo proviamo ora a dare una lettura politica al discorso della Genesi.
Abbiamo detto che il peccato di Adamo fu un peccato di superbia, superbia ha come radice latina “super” e cioè sopra, questo ad indicare che Adamo volle soprammettersi a Dio, sostituire l’eteronomia teonoma originale. Adamo è rivoluzionario, ha voluto conoscere il bene e il male, un privilegio che Dio si riserva e che l’uomo usurperà col peccato. Non è l’onniscienza che l’uomo decaduto non possiede, ne il discernimento morale che l’uomo innocente aveva già. E’ invece la facoltà di decidere de se stessi ciò che è bene e ciò che è male, e di agire di conseguenza: è la rivendicazione di un autonomia morale. Il primo peccato dunque è attentato alla sovranità di Dio, è una rivolta, una rivoluzione in nome della libertà. Ma questa superbia che doveva innalzare ha invece abbassato l’uomo, l’ha umiliato. E questa libertà che doveva liberare ha invece rilegato, rinchiuso e schiavizzato l’uomo.
«Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Genesi 3, 22)
La schiavitù dell’uomo si configura come schiavitù del lavoro e della morte. L’uomo del peccato, l’uomo rivoluzionario paga la sua libertà con la fatica del lavoro, paga la sua autonomia con la morte. Se Adamo non avesse peccato sarebbe stato perfetto, non sarebbe mai morte, non avrebbe mai lavorato, ma sarebbe sempre stato sottomesso alla Legge. Ma il racconto della Genesi in questa ottica, volutamente provocatoria, è di un cinismo esagerato. La libertà che doveva liberare riduce in schiavitù: l’unica libertà dell’uomo è la libera sottomissione alla Legge: liberi di essere schiavi.

Prima di concludere mi preme un osservazione finale che rimette in discussione tutto quanto detto sopra: non fu Adamo ad essere sedotto dal serpente, ma la donna.
Si tratta di un osservazione fondamentale che si collega direttamente alla perfezione di Adamo rispetto a quella di Eva. Perchè il serpente tentò Eva e non Adamo? Agostino ci dice che Lucifero temeva la razionalità di Adamo, per questo tentò Eva, tentò cioè una creatura di razionalità inferiore. Agostino ci dice che Eva è infirior rispetto ad Adamo e cioè è sottomessa a lui, ma io vorrei ribaltare il discorso e cioè dimostrando in realtà che fu Adamo ad essere sottomesso alla donna, nonostante la sua superiore razionalità.
Uno dei passi più belli del libro XIV del De civitate dei di Agostino è quello in cui l'ipponiense si interroga sulla diversa motivazione che spinse Adamo a peccare. Secondo la lettura agostiniana, in accordo con il racconto della Genesi, Adamo ed Eva erano sposati. Non solo. Agostino dice che l'uomo è un animale così sociale (insegnamento aristotelico) che rinuncerebbe a tutto pur di non rimanere solo. Adamo ha cioè così paura della solitudine che decide di perdere la sua rettitudine pur di non perdere il suo sodalizio con Eva. Il peccato di Adamo fu cioè spinto dall'accondiscendenza. San Paolo nell'Epistole ai Romani dice: "Adamo non fu sedotto, solo la donna si". Come però giustamente ci ricorda San Tommaso nel primo articolo della questione 95 della Summa teologica, Paolo non dice che Adamo non peccò, dice solo che non fu sedotto. Adamo peccò quanto Eva, ma peccò non perchè spinto dall'autonomia, dall'essere come dei, ma perchè spinto da Eva. L'accondiscendenza è sottomissione, Adamo di fatto era sottomesso alla donna. Ma la cosa interessante che se ne deduce da tutto questo discorso è che la ricerca di autonomia è insita nella natura della donna, non dell'uomo, e questo per una inferiorità razionale della donna stessa. L'uomo-Adamo nella sua perfetta razionalità sa bene che questa libertà così seducente non potrà mai portare a qualcosa di buono, solo la donna lo pensa. La donna è cioè spinta dal desiderio della sopramissione, e spinge nel suo progetto anche l'uomo.
Questo per dire che il desiderio di autonomia è in quest'ottica un desiderio femmineo irrazionale. La razionalità perfetta sa bene che la libertà è solo libero pensiero di schiavitù.

sabato 9 giugno 2007

Haiku 10

Mio Lucherino,

sale giù dall'iride,

non piangere più