giovedì 16 agosto 2007

Quel che mi sovvien a del mio cor rimembramento


Quel che mi sovvien a del mio cor rimembramento
Dell’aere fuggente, del sorriso tra la pelle
Di ogni momento atteso nel ripensamento
Di quando madonna mia amare mi velle

Adesso dal paradiso nell’infero scento
E di quei attimi di placito spiro solo
del dì ito una languida umbra memento
che asconde la vida come la nebula il molo

Tedio di vivere, sia questa l’amara sorte
Che ad ogni istante eterno tempo cumresponde
Tanto da appassir come una subitanea morte

Il palpito d’amor che pria a noi ci sopraggiunse
Or vivi nei mie sogni come labile dea
E nelle lucine notti il mio cor ti raggiunge

sabato 11 agosto 2007

Coito ergo sum

Mettiamo caso che il vostro pene vi parli e che a poco a poco prenda il controllo della vostra vita, cosa pensereste? Subordinati pure al vostro pene, sembra assurdo vero? Mettiamo pure caso che il vostro “arnese” sia gigantesco, enorme, sproporzionato nell’eccesso e che risulti più prorompente del vostro intero cervello. Un pene enorme e una testa piccola, come vi sentireste?
Non so voi ma io mi sentirei superiore a tutti gli altri uomini, eppure voi non riuscite a sentire un senso di superiorità, anzi, vi sentite addirittura inferiori, sottomessi a tutte le altre persone, nonostante le dimensioni del sesso.
Desublimati, ecco cosa siete. Così si sente Rico, il protagonista del libro Io e Lui di Moravia. Rico è un intellettuale, un uomo di cultura, un velleitario con aspirazioni registiche. Fisicamente non è un granché, diciamolo, è pure brutto: basso, calvo, grassoccio, non ha nulla di bello, eppure ha un uccello enorme, prorompente a tal punto che riesce pure a comunicare con il suo Io. “Lui”, il pene, è l’esatto contrario, è alto, longilineo e a differenza sua non ha nessuna aspirazione culturale, per lui conta solo l’azione. Rico rappresenta la sfera psicologica, la Ragione intesa leopardianamente come arresto, morte. Rico vive nell’ossessione del suo pene, sente che in lui si sia rotto qualcosa, si sente cioè scisso. Tra Rico e Lui esiste un dialogo. Rico non si parla, Rico parla all’altro, a lui. Io e Lui formano due persone differenti, non sono un Noi, sono un Io e un Lui che vivono ormai dialogicamente. Se fossero un Noi ci sarebbe solo un monologo ma niente monologhi nella vita di Rico. Da una parte la ragione, l’Io, la cultura quindi il pensiero quindi l’arresto e dall’altra la sessualità, Lui, la Natura quindi il corpo quindi l’azione.
Rico è un fallito, Rico si sente costantemente un fallito. Fallito nel matrimonio, separato da una moglie ormai irriconoscibile per quanto si sia lasciata andare; fallito nelle relazioni sociali, fallito a lavoro. Il senso di inferiorità è dovuto in lui dalla consapevolezza di essere un desublimato.
Che cos’è la desublimazione? Partiamo dalla sublimazione. Secondo Freud tutte le creazioni umane, la scienza, la filosofia, l’arte, etc. sono prodotte dalla pulsione sessuale benché sembrino molto lontane da questa loro origine. Ecco la sublimazione consiste proprio in questo mascheramento, nell’indirizzare tutte le nostre energie sessuali in ambiti considerati socialmente più utili. Il pittore quindi non è altro che un erotomane che al posto di darsi al sesso incanala tutta la sua passione fisica all’interno della creazione artistica. Questo nel sublimato. Ma Rico è un desublimato, Rico cioè non riesce più a incanalare la pulsione sessuale all’interno del campo culturale, tutto questo per colpa di Lui. La scissione che si è venuta a creare tra lui e Lui ha compromesso irreparabilmente la possibilità del mascheramento. Ecco perché Rico è un fallito, è scisso. L’unica possibilità per lui è ritornare all’unità. Rico e Lui litigano, non si accordano mai su nulla: Rico vuole fare una cosa ma Lui lo spinge per un'altra; se soltanto riuscissero a mettersi d’accordo allora la loro scissione troverebbe l’unità tanto agognata e l’Io potrebbe finalmente smettere di essere un fallito.

Il libro è molto divertente, i dialoghi tra Rico e il suo pene poi sono qualcosa di assolutamente geniale, certe disquisizioni sulla masturbazione e i feticismi hanno un non so che di brillante, ma il romanzo non è affatto frivolo e superficiale. Io e Lui è un romanzo molto serio, che discute sulla frattura dell’uomo moderno, su come oggi sia avvenuta una liberazione sessuale talmente liberativa che ha portato ad una palingenesi dei fini.
Nel 1969 Herbert Marcuse scrisse:

«La morale sessuale è stata liberalizzata in alta misura; inoltre la sessualità viene propagandata come stimolo commerciale, voce attiva negli affari e simbolo di status»

Siamo stati così liberati che la libertà stessa ha creato una prigione. Parliamo di sesso, fin troppo. Parliamo così tanto da risultare tutti come dei Rico, desublimati, ragione che lotta con il desiderio. Non si riesce più a sublimare le passioni, le passioni stesse sono diventate troppo palesi per poter risultare ancora appetibili. Una donna nuda non fa più gola, parlare di fellatio è ormai la norma.
Mi viene in mente “sex and the city”. Ho visto una puntata è per 60 minuti avrò sentito la parola vagina non meno di 60 volte. Vagina, vagina, vagina, vagina, sembrava quasi che si parlasse ci caffèlatte. “Come sta bene la mia vagina” – “Quanto è buono il caffèlatte” – “Ho la vagina bagnata” – “Scotta sta tazza di caffèlatte”.
Non voglio fare il moralista, non me ne frega niente se la gente ormai ama così tanto parlare delle loro vagine, il punto è un altro: più se ne parla e più si rimane imprigionati nella verbalità.
Vi ricordate le scuole medie? Chi non ha mai avuto come compagno di classe il caro Ciccio, quello con la scorta di giornalini porno nello zaino che sapeva così tante cose sul sesso che in confronto il ginecologo è solo un novellino alle prime armi? Il caro Ciccio, quello che parlava tanto ma capivi che mai aveva fatto, mai aveva osato.
La parola è il pensiero e il pensiero è l’arresto. Ho sentito parlare di “rivoluzione asessuale”, ecco il termine significa proprio questo, l’incapacità ora per i ragazzi nell’approcciarsi al di là di un livello verbale all’altro sesso.
Desublimati, prigionieri della nostra sessualità verbale.

domenica 22 luglio 2007

Haiku 11

Dormi beata.

Ora aspetto il mattino,

dolce Agostino.

giovedì 12 luglio 2007

I ciechi provano vergogna per la loro nudità?



«Erano nudi e non si vergognavano» (Genesi 2,25)

Qual è lo statuto ontologico della vergogna? Perché Adamo ed Eva prima del peccato originale non provavano vergogna per la loro nudità? La vergogna ha a che fare con il corpo o con lo spirito?
Cercherò di rispondere a queste domande facendo riferimento a due autori che pongono il tema della vergogna in due domini separati, da una parte Agostino e il tema della vergogna come conseguenza del peccato originale, e dall’altra Sartre con il tema della vergogna e il problema dell’esistenza d’altri, da una parte lo spirito e il dominio della morale (Agostino) e dall’altra il corpo e il dominio fenomenico (Sartre).

Nel capitolo 17 del Quattordicesimo libro del De civitate Dei, Agostino si interroga sul tema della libidine come conseguenza del peccato originale in relazione al pudore. La domanda che muove questo capitolo è cioè: “Perché Adamo ed Eva incominciarono a provare pudore per la loro nudità?”
La Genesi ci dice che Adamo ed Eva prima del peccato erano nudi senza vergognarsi di ciò. Secondo Agostino l’assenza di pudore nello stato edenico era garantito non dal fatto che la nudità fosse a loro sconosciuta, ma perché la libidine non stimolava ancora gli organi genitali. Sappiamo che prima del peccato originale Adamo ed Eva godevano dello stato di rettitudine e cioè di giustizia originale che consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, delle facoltà inferiori alla ragione e del dominio del corpo da parte dell’anima. La rettitudine si caratterizzava in rapporti di subordinazione. Tutto era finalizzato e orientato alla contemplazione di Dio garantita dalla componente razionale dominante su tutte le altre facoltà umane. In questo consisteva la perfezione di Adamo, in questo consisteva la sua giustizia. La giustizia era fondata su un rapporto interno al soggetto-Adamo fondato da rapporti di sottomissione finalizzati alla contemplazione del fine ultimo Dio. A seguito del peccato Adamo ed Eva perdono la giustizia originale e sperimentano la disubbidienza. Si tratta di una disubbidienza interiore che rompe il rapporto di identità tra volere, dovere ed essere ma anche i rapporti di subordinazione che garantivano la perfezione originale adamitica: la ragione non dominerà più le facoltà inferiori, il corpo non sarà più dominato dalla ragione e l’anima non contemplerà più perfettamente Dio. Il corpo diventa carnale nella carne, è un corpo erotico, concupiscente che ha bisogno di essere coperto. Subito dopo aver peccato Adamo ed Eva infatti si accorgono di essere nudi e “intrecciano foglie di fico e se ne fecero cinture”, l’aprire gli occhi di cui si fa menzione nella Genesi non è un risveglio oculare, è il risveglio della libido. Libido viene da Libet e indica un piacere sfrenato, incontrollabile. La libidine è appunto il sintomo più eclatante dell’inordatio dovuta alla colpa adamitica. I genitali si muovono ora senza volontà, la volontà non governa più niente.
La vergogna per Agostino nasce dalla libidine e la libidine è conseguenza della disubbidienze, colpa e pena dei primi due uomini. La vergogna ha a che fare con lo spirito, con uno spirito che non riesce più a controllare la carne. La vergogna diventa dunque un fatto morale. Se Adamo ed Eva non avessero peccato avrebbero continuato a vivere nudi e senza vergogna, perché il loro corpo continuerebbe ad essere spirituale.
Ma se la vergogna è sintomo della libidine questo significa due cose:

Più una persona prova pudore e più sente la libidine. In questo senso la persona pudica è la persona più lussuriosa, perché sente maggiormente la carnalità del suo corpo. Il pudore è quindi la veste della carnalità, è la cintura che costringe la libidine a non sfuggire di controllo. La pudicizia è maschera della concupiscenza.
La vergogna non è un fatto oculare, non ha nulla a che fare con la vista e con lo sguardo altrui, pertanto anche un cieco può provare vergogna per la sua nudità.

Ma davvero un cieco prova vergogna per la sua nudità?
Secondo Sarte la vergogna è innanzitutto coscienza di qualcosa. Questo qualcosa sono io. Io ho vergogna del mio essere perché scopro qualcosa del mio essere che prima mi sfuggiva. Ma la coscienza della vergogna non è autocoscienza per Sartre, non è riflessiva. Non è la coscienza di me per me, ma è la coscienza posizionale di me verso un altro. Io mi vergogno di fronte a qualcuno.

«(…) la vergogna nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno» (Sartre, L’essere e il nulla)

Sono in macchina, il semaforo è rosso e nell’attesa mi metto le dita nel naso. Mi giro e scopro che l’automobilista che mi sta di fianco mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e provo vergogna.
La vergogna è quindi la coscienza di me di come appaio all’altro, per questo Sartre ne parla proprio nel capitolo dedicato al problema dell’alter ego. Mi vergogna perché sono visto, perché sono oggetto dello sguardo altrui. In questo senso la vergogna è riconoscimento: riconosco di essere come altri mi vede. Da soggetto della visione divento oggetto dello sguardo, è l’oggettivazione della soggettività che si pone nell’essere nel campo visivo altrui. Due conseguenze:

Non posso provare vergogna senza l’altro, non esiste cioè una vergogna in solitudine.
La vergogna è un fatto fenomenico e cioè di apparizione visivo all’altro. In questo senso sono due le condizioni della vergogna: l’altro e lo sguardo. Un cieco quindi non può provare vergogna per la sua nudità non in quanto sfugge allo sguardo altrui (il cieco non mi vede ma io lo posso vedere) ma in quanto non può riconoscere di essere visto. Fisso un cieco, il cieco diventa oggetto del mio sguardo ma che cosa sente il cieco? Continuerà ad essere soggetto autonomo. Il cieco è soggetto assoluto in quanto è svincolato dalla possibilità di riconoscere di essere veduto.

Eccoci quindi arrivati alla conclusione di questa riflessione. Per Agostino d’Ipponia la vergogna è un fatto morale dovuto alla perdita della rettitudine da parte del peccato di Adamo ed Eva. La perdita della giustizia originale ha comportato la disubbidienza interiore e il corpo diventa carnale nella carne sperimentando la libidine. La consapevolezza della carnalità spinge l’uomo al pudore e la vergogna si costituisce per tanto come riconoscimento della libidine genitale.
Per Sartre invece la vergogna è un fatto fenomenico dovuto al riconoscimento di essere come altri mi vede. Non un fatto morale, ma un fatto di visione. Il riconoscimento della vergogna non è più riconoscimento genitale ma visivo e il dominio della vergogna si sposta dalla morale al problema fenomenologico dell’altro.
Nell’ambito morale anche il cieco prova vergogna perché riconosce comunque la concupiscenza del suo corpo. Nell’ambito fenomenologico il cieco non può provare vergogna perché non riesce a riconoscere lo sguardo fisso su di sé. Ma chi ha ragione, Agostino o Sartre?

martedì 3 luglio 2007

Recensione Transformers



«In principio era il cubo»

Geniale…l’apertura del film è davvero strepitosa: universo, comete e robaccia galattica fluttuante qua e là e dopo…lo zoom della telecamera inquadra un mega cubo di Rubik volteggiare per il cosmo come l’osso del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Ma Michael Bay non è Kubrick, e si vede. Domanda: è possibile fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un gigantesco cubo che si trova sulla terra? No, non è possibile a meno non di fare un film ridicolo. Transformers è un film davvero ridicolo, talmente ridicolo che risulta così geniale che nemmeno Beckett stesso oserebbe tanto, un concentrato di frasi deliranti piene di non-senso, farcite qua e là con della retorica robotica.
Ma veniamo più nello specifico e cerchiamo di capire i motivi per cui questo film non funziona e come, di fatto, non potrebbe mai funzionare. Primo, come già detto è impossibile fare un film su dei robottoni che per giunta si trasformano in macchine, cellulari e altra roba tecnologica. Corollario di questo è che se uno va a guardare, gli stessi Transformers nascono come prodotto ludico degni anni Ottanta. Prima arriva il giocattolo, poi, sulla scia del successo commerciale di questi, nasce il cartone. Seduto su una poltroncina il piccolo Steven Spielberg, allora ragazzino spastico con problemi di socializzazione sogna alieni nani dai grandi occhioni tondi e super robot in cerca di cubi giganti. Passa il tempo e Spielberg cresce. Diventa regista e sforna uno dopo l’altro una serie di film block-buster campioni d’incassi, fino ad arrivare al 2007. Vecchierello e arrivato alla gloria della carriera il nostro caro Spielberg chiama il suo compare Michael Bay, famoso per aver diretto film muscolosi e ipervitaminici, insomma, quelli tutto sparatorie e sparatroie.
Suona il telefono. Primo squillo….Secondo squillo…terzo squillo. Rispondono:

«Pronto Mike? Sono Steve»
«Uè bella, come brutta fratè? (classico modo d’esprimersi dei registi g-giovani)»
«Inzomma, ho preso la gonorrea (fa molto g-giovane la malattia venerea)…senti, ti volevo chiedere, ti andrebbe di fare un film su dei robottoni venuti dallo spazio per un cubo gigante? Produco io»
«Un film su dei robottoni venuti sulla terra per un cubo gigante?! Cazzo, questa è davvero un idea geniale, ma come fai a pensare a certe cose? Dio mio, sei un fottuto Hegel del cazzo. Ci sto»

Michael Bay ci sta e dirige il film che viene terminato nel 2007 arrivando a spendere di budget una cifra complessiva di 143 milioni di dollari, una cosa come 8 volte il prodotto interno lordo annuo del Burkina Faso, e non sto scherzando. Il film esce nelle sale il 26 giugno e il 2 luglio vado a vederlo. Mi siedo, bevo un po’ d’acqua e mi sorbisco la pubblicità, infine inizia il film. 144 minuti di pisolate, urla e gente che corre e si dimena, macchine che scoppiano, case che scoppiano, carri armati che scoppiano e persone che, scoppiano. Insomma, esplode tutto, ma la cosa divertente è che nessuno sanguina, nessuno muore, solo un gran casino.
Oggi mi sono collegato ad internet e ho letto le recensioni, sono rimasto basito. Giudizio unanime: è un capolavoro. Allora mi sono chiesto: che cos’è che non va? sono io che non faccio testo o la gente si è rincoglionita davvero? Il mio ego mi spinge per quest’ultima, ma è soprattutto il mio cervello che si rifiuta di considerare Transformers un bel film. Secondo la maggioranza dei recensori il film è bello perché molto coinvolgente, a parte la mancanza pressoché totale di una trama, ma sono gli stessi recensori che si rifiutano di considerare opere artistiche i film porno, allora mi domando, che differenza c’è tra Transformers e un film di Rocco Siffredi? Sono arrivato ad una conclusione: nessuna. Non esiste nessuna differenza rilevante tale da poter porre un distinguo tra i due generi di film, perché Transformer, al di là della semplice ironia è davvero pornografico, ma non nel senso lato del termine, intendo nel senso stretto. Che cosa distingue un film porno da un film erotico? Non l’esibizione genitale, nemmeno di fatto l’esplicità delle scene, ma è la ripetitività della struttura narrativa. Un film porno è strutturato sempre allo stesso modo: c’è lei, c’è lui, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono persone umane, e si svolge l’atto sessuale. Transformers è strutturato allo stesso modo: c’è un robot buono, c’è un robot cattivo, in alcuni casi ci sono anche altri, che non necessariamente sono robot, e si svolge la battaglia, per 144 minuti. Il risultato è sfiancante e noioso. Avete presente Matrix reloaded, il seguito di Matrix? Le continue zuffe che ad una certa vi fanno alzare dalla poltrone e dire: “E basta! Avete rotto er cazzo!”. Ecco, è la stessa cosa. Ma a sto punto preferisco vedere un film porno, almeno per i primi dieci minuti è gratificante, mentre Transformer è noioso fin dall’inizio.
Buona visione (non andatelo a vedere)

mercoledì 13 giugno 2007

Adamo rivoluzionario

Pochi giorni fa mi è stato domandato se, e che tipo di interpretazione politica poteva essere data al problema teologico del peccato originale, in termini semplici, com’è possibile dare una teoria politica al peccato compiuto da Adamo ed Eva. La risposta che si voleva che dessi riguardava l’idea che lo stato edenico costituiva una prospettiva utopica di società umana da ripristinare. Considero questa linea interpretativa un po’ banale, così voglio ora restituirvi quello che io penso (in realtà nemmeno, è giusto per polemica contro la tradizione) possa costituire il fondamento politico del peccato originale.

Prima di tutto è essenziale soffermarci sulla condizione di innocenza di cui godevano Adamo ed Eva prima del peccato. Nella questione 95 della Summa Theologiae San Tommaso scrive che Adamo fu creato retto, in perfetto accordo con quanto contenuto nel versetto 7, 30 dell’Ecclesiaste: Deus fecit hominem rectum. Ora, questa rectitudo di cui parla Tommaso consiste nella giustizia originale (di cui parla Sant’Anselmo) e cioè nella perfetta corrispondenza tra essere e dovere, per cui Adamo, in quanto uomo retto, era ciò che doveva essere. San Tommaso riprende il discorso anselmiano definendo la rettitudine di Adamo con la frase «Erat enim rectitudo secundum hoc, quod ratio subdebatur Deo, rationi vero inferiores vires et animae corpus» e cioè, la rettitudine di Adamo consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, delle facoltà inferiori alla ragione e del dominio del corpo da parte dell’anima. La rettitudine si caratterizzava in rapporti di subordinazione. Tutto era finalizzato e orientato alla contemplazione di Dio garantita dalla componente razionale dominante su tutte le altre facoltà umane. In questo consisteva la perfezione di Adamo, in questo consisteva la sua giustizia. La giustizia era fondata su un rapporto interno al soggetto-Adamo fondato da rapporti di sottomissione finalizzati alla contemplazione del fine ultimo Dio.
In virtù del dominio delle facoltà inferiori da parte della ragione Adamo era impassibile, non provava emozioni come tristezza e speranza poiché, a quanto ci dice Sant’Agostino nel libro XIV del De civitate Dei, Adamo ed Eva godevano attualmente di ogni cosa, per questo il desiderio era a loro sconosciuto. La volontà di Adamo era inoltre perfetta, non indebolita e sappiamo che le passioni secondo Agostino sono defezioni della volontà, espressioni di una volontà indebolita. Quindi oltre ad essere retto Adamo era anche privo di passioni, a parte quelle in accordo con la regola della ragione e cioè la gioia e l’amore.
Nella Genesi (2, 17; 3, 1-24) la condizione di perfezione e giustizia di Adamo venne meno a causa del peccato originale. Si tratta ora di capire che tipo di peccato fu il peccato commesso da Adamo.
Dalla lettura di Agostino sappiamo che il peccato di Adamo non fu un peccato di gola e cioè il semplice desiderio di un bene materiale, Adamo non provava desideri materiali, era impassibile, per tanto il desiderio di Adamo fu di tipo spirituale. Fu un peccato di superbia, fu la volontà di volere essere come dei, di volersi allontanare da Dio per essere autonomi. La volontà di Adamo fu volontà di autonomia, di essere legge di se stesso, di non essere più sottomesso alla Legge, a Dio, fu il desiderio di Libertà che provocò la più grave schiavitù: la morte e il lavoro.
Sappiamo sempre da Agostino che Dio punì Adamo ed Eva rimettendo a loro come pena la loro stessa colpa e cioè la disobbedienza. Da questo momento la vita di Adamo ed Eva sarà costituita dalla disobbedienza interiore (l’inordatio di cui parla San Tommaso). Questa disobbedienza interiore è la privazione della giustizia originale e cioè della rettitudine. Non ci sarà più corrispondenza tra volere, dovere ed essere. Poiché Adamo volle cioè che non poteva, da ora vorrà sempre cioè che non potrà mai. Si tratta di una volontà condannata alla frustrazione eterna. La disobbedienza rompe il rapporto di identità tra volere, dovere ed essere ma anche dei rapporti di subordinazione che garantivano la perfezione originale adamitica: la ragione non dominerà più le facoltà inferiori, il corpo non sarà più dominato dalla ragione e l’anima non contemplerà più perfettamente Dio. Il corpo diventa carnale nella carne, è un corpo erotico, concupiscente che ha bisogno di essere coperto. Subito dopo aver peccato Adamo ed Eva infatti si accorgono di essere nudi e “intrecciano foglie di fico e se ne fecero cinture”, l’aprire gli occhi di cui si fa menzione nella Genesi non è un risveglio oculare, è il risveglio della libido. Libido viene da Libet e indica un piacere sfrenato, incontrollabile. La libidine è appunto il sintomo più eclatante dell’inordatio dovuta alla colpa adamitica. I genitali si muovono ora senza volontà, la volontà non governa più niente. Per questo Adamo da ora proverà le passioni, la sua volontà è indebolita, per tanto da ora il corpo sarà corruttibile in quanto l’anima non riuscirà più a dominare la carne.

Detto questo proviamo ora a dare una lettura politica al discorso della Genesi.
Abbiamo detto che il peccato di Adamo fu un peccato di superbia, superbia ha come radice latina “super” e cioè sopra, questo ad indicare che Adamo volle soprammettersi a Dio, sostituire l’eteronomia teonoma originale. Adamo è rivoluzionario, ha voluto conoscere il bene e il male, un privilegio che Dio si riserva e che l’uomo usurperà col peccato. Non è l’onniscienza che l’uomo decaduto non possiede, ne il discernimento morale che l’uomo innocente aveva già. E’ invece la facoltà di decidere de se stessi ciò che è bene e ciò che è male, e di agire di conseguenza: è la rivendicazione di un autonomia morale. Il primo peccato dunque è attentato alla sovranità di Dio, è una rivolta, una rivoluzione in nome della libertà. Ma questa superbia che doveva innalzare ha invece abbassato l’uomo, l’ha umiliato. E questa libertà che doveva liberare ha invece rilegato, rinchiuso e schiavizzato l’uomo.
«Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Genesi 3, 22)
La schiavitù dell’uomo si configura come schiavitù del lavoro e della morte. L’uomo del peccato, l’uomo rivoluzionario paga la sua libertà con la fatica del lavoro, paga la sua autonomia con la morte. Se Adamo non avesse peccato sarebbe stato perfetto, non sarebbe mai morte, non avrebbe mai lavorato, ma sarebbe sempre stato sottomesso alla Legge. Ma il racconto della Genesi in questa ottica, volutamente provocatoria, è di un cinismo esagerato. La libertà che doveva liberare riduce in schiavitù: l’unica libertà dell’uomo è la libera sottomissione alla Legge: liberi di essere schiavi.

Prima di concludere mi preme un osservazione finale che rimette in discussione tutto quanto detto sopra: non fu Adamo ad essere sedotto dal serpente, ma la donna.
Si tratta di un osservazione fondamentale che si collega direttamente alla perfezione di Adamo rispetto a quella di Eva. Perchè il serpente tentò Eva e non Adamo? Agostino ci dice che Lucifero temeva la razionalità di Adamo, per questo tentò Eva, tentò cioè una creatura di razionalità inferiore. Agostino ci dice che Eva è infirior rispetto ad Adamo e cioè è sottomessa a lui, ma io vorrei ribaltare il discorso e cioè dimostrando in realtà che fu Adamo ad essere sottomesso alla donna, nonostante la sua superiore razionalità.
Uno dei passi più belli del libro XIV del De civitate dei di Agostino è quello in cui l'ipponiense si interroga sulla diversa motivazione che spinse Adamo a peccare. Secondo la lettura agostiniana, in accordo con il racconto della Genesi, Adamo ed Eva erano sposati. Non solo. Agostino dice che l'uomo è un animale così sociale (insegnamento aristotelico) che rinuncerebbe a tutto pur di non rimanere solo. Adamo ha cioè così paura della solitudine che decide di perdere la sua rettitudine pur di non perdere il suo sodalizio con Eva. Il peccato di Adamo fu cioè spinto dall'accondiscendenza. San Paolo nell'Epistole ai Romani dice: "Adamo non fu sedotto, solo la donna si". Come però giustamente ci ricorda San Tommaso nel primo articolo della questione 95 della Summa teologica, Paolo non dice che Adamo non peccò, dice solo che non fu sedotto. Adamo peccò quanto Eva, ma peccò non perchè spinto dall'autonomia, dall'essere come dei, ma perchè spinto da Eva. L'accondiscendenza è sottomissione, Adamo di fatto era sottomesso alla donna. Ma la cosa interessante che se ne deduce da tutto questo discorso è che la ricerca di autonomia è insita nella natura della donna, non dell'uomo, e questo per una inferiorità razionale della donna stessa. L'uomo-Adamo nella sua perfetta razionalità sa bene che questa libertà così seducente non potrà mai portare a qualcosa di buono, solo la donna lo pensa. La donna è cioè spinta dal desiderio della sopramissione, e spinge nel suo progetto anche l'uomo.
Questo per dire che il desiderio di autonomia è in quest'ottica un desiderio femmineo irrazionale. La razionalità perfetta sa bene che la libertà è solo libero pensiero di schiavitù.

sabato 9 giugno 2007

Haiku 10

Mio Lucherino,

sale giù dall'iride,

non piangere più

sabato 19 maggio 2007

Il Fantasma e l'Eso e Terico

Ci sono momenti della vita in cui capita di fare esperienza dell’impossibile, in cui il reale, spiegabile secondo il principio di causalità, crolla e si arena tra gli scogli del mistero, ci sono cioè momenti in cui il normale si tinge di nero. A me è capitato, più volte. La prima accade il secondo anno d’università, partecipando ad una seduta spiritica celebrata dallo stregone di terzo livello (ora quarto) di nome Yoghi. Mi ricordo che l’aria si fece rarefatta, le sedie tremavano e i ragazzi petavano a mo’ di botti di capodanno, facendomi sorgere il dubbio che in realtà il tremore fosse scatenato dal movimento di culo. Ma io non sono Piero Angela, non voglio dunque riproporre il fenomeno in laboratorio per dare all’esperienza una valenza scientifica, soprattutto perché immagino come possa rarefarsi l’aria in laboratorio con il medesimo movimento intestinale (conatus culendi come direbbe il fu Spinoza).
La seconda volta capitò l'anno scorso, sempre in una seduta spiritica. Quella notte venimmo a contatto con l’anima di un defunto ingegnere informatico soprannominato Bit. Mi ricordo ancora di lui, che animo buono, che sensibilità e che tragedia la sua: morto suicida a seguito del dolore insostenibile per il lutto della sua ragazza, studiosa di medicina colpita a morte dal cancro. La scena era così toccante che Yoghi stesso, il maestro stregone, si commosse pregando per una felicità ultraterrena.
La terza volta capita oggi. Sono venuto in possesso di una foto compromettente che metterebbe in ginocchio le stesse credenze scientiste del Cicap. Si tratta di una foto para-gnottica, come direbbe il grande mago Gabriel, che potrebbe urtare gli animi dei più sensibili. Per onestà intellettuale mi sembrava giusto pubblicarla comunque, avvisando però i più suscettibili di non aprire la foto a meno di non essere sicuri al cento per cento di poter sopportare uno spaesamento di così tale fattezza. Prima però urge una cosa: per poter vedere il misterico della foto bisogna accendere le casse del computer e mettere il volume al massimo, in modo tale da concentrarsi sul silenzio. L’elemento silente è essenziale. In secondo luogo consiglio di focalizzare l’attenzione sulla finestra di sinistra. Ora non rimane da aspettare, il fantasma infatti farà la sua visita.
Buona visione



http://www.phantomcastle.it/phantom/topsecret_file/Presenze%20spiritiche.swf

lunedì 14 maggio 2007

Teledildonics: ovvero più siamo vicini e più siamo lontani

Spesso si pensa che la tecnologia abbia apportato un sostanziale miglioramento comunicativo all’interno delle relazioni sociali umani. L’uomo non è più isolato, ma può comunicare simultaneamente in più luoghi spaziali, anche posti a distanze ragguardevoli. Con internet posso chattare con un amico in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo superando così barriere spazio-temporali. La tecnologia ci ha avvicinato, non siamo più soli, con essa si è creato un nuovo mondo globale, democratico e cosmopolita, in cui ciascuno (democrazia) può comunicare con uomini continentalmente lontani (cosmopolia).
Ma la tecnologia non ci ha avvicinati. Siamo più lontani nonostante siamo più vicini, parlo con un Inglese ma dove sono? Con chi parlo? E come parlo? Siamo a casa, o in ufficio, o in qualsiasi stanza deprimente provvista di collegamento internet. Siamo prima di tutto isolati, fuori dal mondo, lontani dal tempo e dalla vita vera. Ci immergiamo nel virtuale, comunichiamo attraverso prostati esterne, siamo corpo decorporati, mani veloci che comunicano attraverso tastiera e monitor. Siamo parole prive di tono, di espressione e di vita, righe di lettere amorfe e irreali, siamo gli occhi su un monitor illuminato, fermi e immobili, senza tempo, senza spazio e senza movimento. Con internet siamo in ogni luogo ma siamo anche ogni cosa. Chatto con una. Sono un dottore, ho una ferrari, sono biondo, ho gli occhi verdi e il mio conto in bacca farebbe invidia a Berlusconi. Chatto con una e poi scopro che era “uno”, Mario da Foggia, ciccione, basso, nullatenente e nullafacente. Siamo quello che non siamo, siamo nel sogno virtuale per cui ora parlo, ora mento, ora ammalio e ora posso interrompere la comunicazione: Ora è il tempo di internet, ora è il tempo del possibile ma ora non è il reale. Nella vita vera ci svegliamo ancora, andiamo a lezione ancora, lavoriamo ancora. La vita virtuale si basa sul godimento dongiovanneo per cui tutto è ridotto in attimi, in una serie di ora.
Siamo più vicini ma siamo frammenti di uno specchio virtuale. Con internet possiamo parlare ad ogni istante, parlare molto, peccato non si dica nulla. Più parliamo e meno diciamo, windows messenger è la prova più tangibile di tutto questo.
Siamo fuori dallo spazio e dallo sguardo altrui. Si tratta di una comunicazione celata, invisibile, senza fisionomia, non riconosco mai un volto in una mail, non sento mai una voce in un foglio di word, non sento nulla perché non c’è nulla da sentire. Ecco dunque che la comunicazione si riduce così in finestre di lettere senza identità, senza un corpo ma soprattutto senza un viso. Siamo più vicini ma siamo decorporati, non siamo nemmeno più noi.
Con il cellulare oltre alla decorporazione si assiste alla produzione autodidatta di isolamento corporale pornografico. E’ il corpo decorporato che filma corpi in movimento. Giovani ragazzi che nei cessi dei licei filmano l’Elsa la cagna in preda a un atto isterico-convulsivo riproduttivo. Non fruiamo più del porno, non aspettiamo più le 24 per il Penthouse su Quartarete ma diventiamo noi stessi nuovi Schicchi. Il corpo decorporato va alla ricerca di corpi carne. Ricordiamo l’amata attraverso la foto scattata dal cellulare, scarichiamo suonerie, curiamo cani e gatti a mo’ di tamagotchi e ghiacciamo il divenire in istantanee. Alla morte del papa milioni di ragazzi videro la scena del trasporto della salma non più con i loro occhi ma con l’occhio meccanico della fotocamera del cellulare, come a voler essere prova più provata di questa definitiva privazione del nostro corpo.
Pure il sesso, la massima espressione dell’atto corporeo, è stato ridotto in astratto: informale, anonimo, asessuato e prostesico. E’ il caso della teledildonics per cui si fa sesso senza uso effettivo del corpo ma solo attraverso l’applicazione di tecnologie finalizzate all’eccitamento sessuale. Mouse a forma e a tatto di seno vengono accarezzate per presentificare un corpo assente mentre elettrodi eccitano ad intermittenza i vari punti erogeni del corpo, il tutto al fine di simulare il rapporto. La teledildonics è libertà in quanto ci libera dal corpo ed è anche immaginazione concretizzante in quanto presentifica nella concretezza della sensazione elettrodica un corpo in realtà assente. E’ doppiamente decorporizzante in quanto l’assenza si rivela non solo nella nostra decorporità ma anche in quella altrui. E’ lontananza infinita che ricerca un contatto, una carezza, un tocco, un corpo ormai lontano, ormai inesistente.
Siamo vicini eppure così lontani

martedì 1 maggio 2007

Limerick

Un formichiere gigante a Bologna

con un alito odor mela cotogna

leccava in strada i bimbi

con un fare da rimbi

tanto che sembrava avesse la rogna

lunedì 30 aprile 2007

venerdì 27 aprile 2007

Mondo del blog e mondo dei commenti

E’ da pochi giorni che il blog viene tempestato da commenti, tutti tra l’altro slegati dal contesto di discussione dei miei scritti. I commenti del blog hanno creato un sottoblog, demenziale, scemo e volutamente autoreferenziale, per comprenderli bisogna capire il soggetto che li scrive. Alle spalle di tutto questo c’è lo zampino della mia ragazza, il Camillo Sbarbaro (no, la mia ragazza non è un ragazzo, il suo nick è un omaggio ad un letterato italiano lichenofilo e puttaniere) dagli atteggiamenti pederasti che in un modo o nell’altro ha dato vita ad una guerra dei commenti, quello che ancora non ho capito è chi le sta dando tanta corda. Alcuni miei cari amici, nonché frequentatori di vecchia data del blog mi accusano di “essere il responsabile in un modo o nell’altro” di tutto questo. E’ vero, mio caro Vlad Tepes, “in un modo o nell’altro” sono responsabile di questo degenero, ma se rifletti bene “in un modo o nell’altro” tutti siamo responsabili di tutto. “In un modo o nell’altro” i negri sono poveri perché consumano tutto senza conservare, cos’è questa deriva gigiesca? “Se non esci di casa non può caderti la tegola in testa” cioè come dire “se metti una bottiglia piena d’acqua in frizer non si ghiaccia” (ahahahahah). Ma per favore, non è da te questo livello minimo di argomentazione.
Per quanto concerne l’ambiguità, tutto questo ha strettamente a che fare con il carattere autoreferenziale dei commenti stessi. Se nessuno sa che “Camillo Sbarbaro” è la mia ragazza potrebbe pensare che è un gay che sta tutto il giorno attaccato al computer a lasciare commenti idioti al mio blog. Caro Vlad, tu mi accusi di “fingere apposta”, io ti rispondo che quella frase non era riferita al blog prima di tutto e inoltre che io nel campo dei commenti non faccio nulla di proposito. Tu poi sempre dirmi: “Non è vero, potevi infatti dire che si trattava della tua ragazza”. Ma che cosa devo fare allora? Devo essere un burocrate per cretini? Devo lasciare cartelli e avvisi per ogni cosa non del tutto chiara? Le sigarette uccidono, Tenere fuori dalla portata dei bambini, Le armi ammazzano. Vuoi che faccia questo? Hai davvero bisogno di tutto questo? Ho sempre pensato che il più della gente fosse stupida e dato che il mio blog non viene visitato da quasi nessuno ho sempre dedotto che questi pochi sono i buoni, quelli intelligenti. Io non credo che la gente che visita il mio blog pensi che ci sia un alone di ambiguità nei commenti lasciati: se tu non vedi l’ironia e la demenzialità cosa posso dirti? E’ come cercare di far vedere il colore rosso ad un daltonico. Certo, puoi sempre dirmi che in realtà l’ambiguità non la vedi solo tu, puoi dirmi che ben l’ottanta per cento dei commenti lasciati manifestano questa ambiguità di sfondo, ma pensa sempre al fatto che si tratta di commenti lasciati dalla mia ragazza scema che idiotizza tutto ciò che tocca.
Quello che non riesco a capire è come tu possa vedere tutto questo con occhi seriosi, ma non ti rendi conto della stupidaggine del contenuto dei commenti?
Voglio solo dire una cosa, il blog ha ora partorito un sottoblog fatto di commenti. Io non sono responsabile di questo, non è stata una cosa programmata, voluta e sperata. Posso interrompere tutto questo chiudendo i commenti ma se non lo faccio è per due motivi precisi:
1. Chiudere adesso i commenti equivarrebbe a dare ragione a Vlad Tepes e cioè vedere questo fenomeno come una degenerazione, un livellamento verso il basso. Ma non credo in questo, non penso che ci sia stata una degenerazione. Il mondo dei commenti è demenziale per via della demenzialità dei loro commentatori, e la cosa mi affascina e mi diverte da morire.
2. Sono così divertito dalla cosa che voglio proprio vedere dove andrà a finire sto caos infernale. Chiudere ora i commenti è come togliere al pittore il pennello nel momento della pennellata decisiva.
Vediamo dunque dove porterà tutto questo, si tratta in ogni modo di un arricchimento. Chi vuole rimanere in un livello alto potrà sempre leggere i miei scritti (ahahahahah), mentre per chi si vuole solo fare due risate allora basterà un salto all’angolo dei commenti.
Ringrazio tutti della loro partecipazione, stupida o meno non mi interessa.

giovedì 26 aprile 2007

Invasione di Sbarbari

Ma cosa sta succedendo? Trascuro per un momento il blog per via degli esami e mi ritrovo un'invasione di Camilli Sbarbari. Uno, nessuno e centomilla. Chi accusa l'altro di plagio, chi ricorda la lapide e chi avverte, intanto Sbarbaro ha fatto scuola e ora sono sbucati gli Sbarbarini, lichenofili e puttanieri, per citare due termini usati da un militante poeta sbarbino, e il mondo si copre di poesia. Ma chi è il vero Sbarbaro? Quello morto nel 1967 oppure il pederasta frequentatore del mio blog? E che dire del terzo Sbarbaro, l'avvertitore? C'è vita nell'universo, e dopo la morte? Sarà che Sbarbaro è gay e frequenta il mio blog? In questo caso solo una cosa mi preme dire: "A Sbarba, non sono gay!!"

domenica 15 aprile 2007

Aforisma del giorno


Non ho peli sulla lingua...momentaneamente

Loris Batacchi

Riflessione della settimana

In Slovacchia c'è un paese chiamato Figa, ora, se adesso faccio le valige e prendo il primo volo per Tornal'a per poi arrivare in pullman a Figa, e se dopo tutto questo viaggio non trovo figa a Figa, posso denunciare il sindaco della città per pubblicità ingannevole?


sabato 14 aprile 2007

sabato 31 marzo 2007

Recensione Agostino

Spesso la bellezza di un film non si misura dal suo successo ai botteghini, Agostino è uno di questi casi. Quando nel 1962 uscì la critica e il pubblico stroncarono unanimemente l’importanza e la profondità del suo messaggio, non è un caso: Agostino è un film difficile da apprezzare, non perché sia inapprezzabile, tutt’altro, ma perché al posto di “parlare” allo spettatore, decide di sottintendere. Nulla è diretto e visibile in Agostino ma tutto si nasconde in zone d’ombramento. E’ un quadro velato, un opera da svelare, una musica silenziosa difficile da comprendere, un sogno da interpretare.
Agostino non è semplicemente la storia della perdita di innocenza di un ragazzino di tredici anni in vacanza al mare con la madre, Agostino è un film blakiano. Quello che traccia Bolognini nel film, quello che traccia Moravia nel suo libro, è il rapporto dialettico storicamente determinato tra l’Innocenza e l’Esperienza. Agostino all’inizio del film rappresenta l’innocenza dell’agnello, la candidezza tipica della sua condizione, la trascendenza pura del suo essere che guarda il mondo senza malizia. Agostino è un bambino smaliziato, puro e innocente che si ritrova necessariamente a percorrere il cammino dell’esperienza. Significativo è il suo nome: Agostino. Si tratta di un nome che volutamente strizza l’occhio al filosofo di Ipponia, Sant’Agostino. “Signore dammi castità e continenza ma non subito” con queste parole Agostino, il santo, può essere preso a simbolo dell’uomo dell’esperienza. Sant’Agostino è l’esatto inverso dell’Agostino di Bolognini, un uomo cioè che passa dallo stato esperienziale a quello dell’innocenza e della santità, l’inverso proporzionale di Agostino che passa da una condizione pura ad una corrotta e “maligna”.
Per capire Agostino bisogna svelare il quadro, bisogna tendere le orecchie al silenzio della sua musica, bisogna comprendere cioè i quadri concettuali del rapporto antinomico tra Innocenza ed Esperienza.
L’innocenza abbiamo detto è la condizione di purezza di cui l’agnello è simbolo. Questa condizione è storicamente individuata nella storia umana della fanciullezza e nella storia divina dello stato edenico. Agostino è Adamo prima di aver mangiato la mela. Cromaticamente questa condizione si caratterizza dalla purezza del colore bianco (significativo a riguardo è il modo di vestirsi di Agostino, sempre sobrio nel suo abbigliamento bianco). Da un punto di vista classista, nel senso di classe economica di tipo marxiano, l’Innocenza è rappresentata dalla classe borghese. Agostino è ricco, la sua famiglia è agiata, vive bene, non ha bisogno di preoccuparsi di faccende economiche. La borghesità di questa condizione riflette lo sguardo disinteressato del ricco nei confronti delle ansie del mondo, è la pipa che fuma, non l’industria che inquina, è lo sguardo dalla finestra che guarda l’operaio sporco a lavorare, da qui il bianco del borghese, la sua pulizia.
L’Esperienza è invece è la condizione della corruzione di cui la tigre è il simbolo. E’ lo stato storico umano della vita adulta e divino del peccato adamico. Cromaticamente si caratterizza con il nero del carbone dell’industria (significativo a riguardo è la figura del negretto, l’unico tra l’altro tra i “bambini corrotti” a indossare abiti diversi, come a voler essere distinto a modello). La classe d’appartenenza dell’adulto è la classe operaia-proletaria. E’ il sudore della fronte di Adamo dopo aver peccato, è il fumo della canna dell’industria pesante, è lo sporco del corpo e dello spirito, è la tigre dal divampante fulgore.
Agostino è in vacanza con la madre. La vacanza rappresenta la spensieratezza, l’assenza del lavoro tipica della condizione innocente. Le nuvole però sono all’orizzonte e questo sta ad indicare un cambiamento esistenziale. All’inizio Agostino è legato alla madre come da un cordone ombelicale. Il rapporto di Agostino per la madre è ambiguo, lui è innocente e non vede sua madre come una donna, dall’altro canto la madre è affettuosa fin troppo con il suo bambino. Il rapporto madre-figlio viene spezzato dall’arrivo di un uomo. Agostino fin dall’inizio è turbato da questa situazione, si ritrova geloso verso la madre, ma non si tratta di una gelosia di tipo sessuale, è la gelosia possessiva tipica del rapporto edipico. Si tratta di un complesso, quello edipico che richiede per la sua struttura una specifica triangolarità. All’inizio Agostino è solo con la madre, del padre non si sa molto, probabilmente è morto. Con l’arrivo del pretendente della madre si creano le premesse per il complesso. Secondo il modello freudiano Agostino sviluppa assai precocemente un investimento oggettuale per la madre, investimento che prende origine dal seno materno e prefigura il modello di una scelta oggettuale del tipo "per appoggio"; del padre il maschietto si impossessa mediante identificazione. Le due relazioni per un certo periodo procedono parallelamente, fino a quando, per il rafforzarsi dei desideri sessuali riferiti alla madre e per la constatazione che il padre, in questo caso “l’altro” costituisce un impedimento alla loro realizzazione, si genera il complesso edipico. L'identificazione col padre - l’altro assume ora una coloritura ostile, si orienta verso il desiderio di toglierlo di mezzo per sostituirsi a lui presso la madre. Per Freud dalla risoluzione del complesso di Edipo dipendono: 1) la scelta dell'oggetto d'amore che, dopo la pubertà, compie degli investimenti che richiamano le identificazioni e le minacce inconsciamente avvertite all'epoca del complesso; 2) l'accesso alla genitalità che non è garantita dalla semplice maturazione biologica, ma richiede l'organizzarsi di tutte le pulsioni intorno a quel "centro" che è il fallo; 3) la strutturazione della personalità e in particolare delle istanze del Super-io e dell'ideale dell'lo. Per Bolognini, e ovviamente per Moravia, il complesso edipico rappresenta le condizioni di possibilità per uscire da uno stato edenico e fare l’ingresso nel mondo dell’Esperienza.
E’ grazie al rapporto edipico che si crea nella triangolarità Agostino – madre – l’atro, che il giovane ragazzo arriverà a conoscere i “bambini corrotti” della spiaggia. Si tratta di un gruppo di bambini già cresciuti, già grandi, che hanno colto il malum dall’albero della Conoscenza e che ruotano attorno ad un adulto vero, il bagnino omosessuale. Sottolineo il fatto che per molti psicoanalisti sono le madri i responsabili della omosessualità dei loro figli (e Agostino è un film che gioca tutto sulla ambiguità del rapporto madre e figlio). Basti pensare alla teoria del “cocco di mamma” di Bieber. Secondo Bieber la maggior parte dei genitori-H (parents of homosexual patients, ossia genitori di pazienti omosessuali) considerati nel suo studio, viveva una relazione coniugale insoddisfacente. La maggioranza delle madri-H (madri di pazienti omosessuali) intratteneva con il proprio figlio-H una relazione troppo intima e vincolante. Nella maggior parte dei casi, si trattava del figlio preferito... in due terzi dei casi, la madre affermava chiaramente di preferire il figlio al marito, e si alleava con il figlio in caso di opposizione al coniuge. Nella metà delle situazioni analizzate, il paziente era il confidente della madre.
Il bagnino rappresenta due cose:

1. Il peccato e la corruzione tipiche dell’Esperienza. E’ omosessuale e anche pedofilo
2. Il possibile destino di Agostino e che Agostino cerca in tutti i modi di respingere. Significativa è la scena della barca. Agostino e il bagnino sono su una barca, ad un certo punto il bagnino cerca il contatto con Agostino. Nel film la scena è tutta velata. Il contatto del bagnino con Agostino non è solo di tipo sessuale, il contatto ha un significato simbolico, è il possibile destino di Agostino. Quando Agostino respinge il bagnino dal suo tentativo “iniziatico” e arriva alla spiaggia i bambini corrotti scherniscono il povero giovane imputandogli la sua presunta omosessualità. Il carattere iniziatico è presente in un'altra scena del film e cioè quando Agostino viene battesimato alla fonte del peccato per fare così il suo ingresso ufficiale nel gruppo dei corrotti, rimanendo però sempre distante da esso. Agostino non si sente nel gruppo perché non lo è. E’ corrotto ma non gode di questa corruzione, anzi, cerca di respingerla.

E’ interessa notare come Bolognini, e Moravia, giocano con il contrasto tra Agostino e i bambini corrotti. Agostino è puro, pulito e sobrio nel suo modo di vestire, caratterizzato da vestiti bianchi. I bambini al contrario sono sporchi e trasandati. Agostino parla un corretto italiano senza inflessioni dialettali che caratterizzano invece i bambini corrotti. Agostino non dice parolacce al contrario del gruppo del bagnino, e questo perché la parolaccia rappresenta sia una volgarità dei modi e sia una forma di emancipazione.
Alla fine del film si vede un sogno di Agostino. C’è una porta, un tunnel e la madre sullo sfondo, un cancello che viene aperto, un silenzio totale rotto dalle urla dei bambini corrotti, il negretto che viene sottomesso così come la madre. Alla fine Agostino si sveglia e guarda sua madre, che dorme indifferente dal turbamento di suo figlio.
Gli elementi del sogno sono simboli da svelare. Il tunnel rappresenta il percorso di Agostino, il cancello che si apre rappresenta l’ingresso di Agostino verso il mondo dell’Esperienza. Il silenzio assoluto la condizione di indifferenza e mancanza di malizia verso gli oggetti della condizione edenica precedente. Questo silenzio viene rotto però dal frastuono urlante della corruzione rappresentato dai bambini corrotti. La corruzione è caratterizzata dal nuovo sguardo sul mondo, lo sguardo sessuale: il negretto e la madre vengono così sottomessi. Infine è significativa la scena della madre che dorme indifferente, l’indifferenza che lo stesso Agostino ha perso nei confronti della madre e che ora cerca di ritrovare “con un'altra donna da amare”.

mercoledì 28 marzo 2007

Metafore metasimboliche



Sei la neve tra le mie mani

sabato 10 marzo 2007

Madonna che al cor mio angel parea

Madonna che al cor mio angel parea,
che al suon dell’aere tutto il firmamento
e le stelle e la luna movea,
che trascina seco il mio sentimento.

Dinnanzi a voi il cor mio tremar solea,
e il dardo d’amor nel rimembramento
di un basìo promesso goder potea
in vista del lauto riscattamento.

E Voi da lassù con sguardi di ghiaccio,
mi getti e mi attingi in getti gelanti,
che la tua promessa si vuol sperdea.

Ora lo attendo e chino in terra giaccio;
il desio mi avvampa come in amanti
del bacio di colei che io volea

mercoledì 7 marzo 2007

La fatica inutile

Questo scritto è ispirato ad una discussione avvenuta pochi giorni fa tra me e un mio caro amico. Al centro del discorso stava il fraintendimento comune e generalizzato di considerare la vita affettiva, e più in particolare l’amore, come un cammino a tappe, una scalata di raggiungimenti finalizzati a scopi chiari e precisi. La visione lungimirante del mio amico mi ha spinto ad un furto intellettuale, ho voluto cioè “rubare” le sue idee per farne mie e dare una struttura più architettonica al discorso. Spero che il mio amico possa perdonarmi. Questo tema l’ho sentito molto vicino perché io, per primo, ero caduto nell’errore e solo ora, risvegliato, chissà come e chissà perché, vedo la cosa perspicuamente.


L’errore comune è quello di considerare la conquista amorosa come un videogame. Ora faccio x, ottengo il bonus y così da poter arrivare a z. Si pensa che per far innamorare la ragazza o il ragazzo in questione si possano mettere in atto una serie di strategie; “fare tutto il possibile” per ottenere il bonus y. Esco con una ragazza, le pago la cena, faccio il simpatico, fingo interessi comuni. Faccio tutto questo perché penso che possa farmi acquistare punteggio, come un videogame. Ragiono ipoteticamente: “Se pago la cena, faccio il simpatico e fingo interessi comuni allora ho più possibilità di conquistarla”. Questo ragionamento veicola una precisa concezione del mondo affettivo e cioè pensare ad esso come regolato dalla causalità. Causa: pago la cena – effetto: conquista della donna. Oltre a vedere una legalità causale il modello ingenuo affettivo si basa sull’idea che ognuno può ottenere tutto, la cosa essenziale è mettere in atto le giuste strategie. La vita affettiva è così ridotta ad una serie di tecniche amatorie: “Cosa dire al primo appuntamento”, “I mille modi per conquistarla con il cibo” e via discorrendo. Si tratta, si badi bene, di una concezione promossa anche in campo cinematografico, e non serve scomodare Hollywood per fare qualche esempio. Mi viene subito in mente “La vita è bella” e in generale tutta l’ultima filmografia di Roberto Benigni. L’amore come fatica utile, è questo il messaggio del comico toscano. Se ami qualcuno e se sei disposto a tutto per il suo bene allora tua è la donna. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Il mondo affettivo è un mondo causale? Tutti possono ottenere tutto? L’amore è una conquista strategica?
Supponiamo che un ragazzo single esca tutti i sabati sera oltre che per divertirsi come un g-giovane che si rispetti, anche nella speranza di poter trovare una ragazza. Il suo ragionamento è “se aumento le uscite serali aumento anche le possibilità di trovare una disperata con cui uscire”, un tipico ragionamento matematico che si basa di conseguenza su una concezione causalistica del mondo.
Supponiamo che un a altro ragazzo single non interessi di uscire ogni sera, magari è uno di quelli che non ama nemmeno uscire molto, che ama la tranquillità e la vita semplice. Supponiamo che una sera questi due ragazzi single si ritrovino nello stesso locale. Il primo ragazzo continua ancora a pensare “magari stasera è la volta buona”, mentre il secondo è lì e basta, si preoccupa solo di divertirsi. Forse il secondo non esce da un mese eppure quel giorno, quella sera, trova la ragazza della sua vita, senza pensarci, senza programmi e strategie, per puro atto fortuito. Il primo invece sta ancora lì, nel locale, solo e in cerca di donne.
Ovviamente si tratta solo di un esempio teorico ma spingo chiunque a dimostrami il contrario. Facciamo ora un passo in avanti e proviamo a capire, sempre in maniera del tutto ipotetica, i motivi per qui il secondo ragazzo ha avuto più chances nel trovare una ragazza. Come? Abbiamo detto che è stato un atto fortuito, che c’entrano allora i motivi? Se è un atto fortuito allora non esistono motivi. Pensare a dei motivi equivarrebbe ritornare in una posizione ingenua di affettività causale, ma noi abbiamo proprio respinto le ragioni di questa visone. E ora si parla di motivi?
Se l’amore fosse solo il risultato di atto fortuito, privo di senso e di speranze allora a che scopo il primo appuntamento? A che scopo parlare, provarci, vivere l’amore? L’amore è un atto fortuito allora devo solo aspettare che arrivi, non devo fare altro. E’ la deriva attendistica-rassegnistica, per cui non faccio nulla e mi rassegno di tutto. Ma il modello nichilista dell’amore è tanto sbagliato quanto quello ingenuo-causalista. Dire “tutto ha un senso” e dire “nulla ha un senso” equivale dire la stessa cosa. Il nichilismo più puro è di fatto un razionalismo assoluto. Non esiste un senso assoluto quanto un non-senso pervasivo ma esiste un senso nel non-senso che salva i “motivi del cuore” in una razionalità che non è quella classica del mondo naturale, ma è, per così dire, una razionalità che si staglia in una cornice di irrazionalità. Detto così sembra un discorso merleau-pontiano, in realtà il discorso è molto semplice.
Prima di affrontare il tema del razionale affettivo nell’irrazionale del sentimento è opportuno analizzare che tipo di relazione si crea nel rapporto di conquista.


La donna si deve creare un immagine[1]. La femminilità si caratterizza come creazione ed esibizione di un immagine. Il trucco, la cosmesi, è finalizzato a questo. L’uomo deve catturare l’immagine che la donna gli esibisce. Nella letteratura il rapporto “esibizione – ricezione dell’immagine” è testimoniata da un lessico poetico volto a considerare l’immagine dell’amore (anche) come caccia e imprigionamento. Si fa uso di termini come laccio, distringere e freccia per indicare la caccia all’amore e alla donna. D’altronde nel linguaggio comune l’immagine dell’amore come caccia continua a sopravvivere in alcune espressioni, come per esempio “andare a caccia di donne”. La donna è la preda che esibisce un immagine e l’uomo è il cacciatore, colui che deve catturare la preda e godere della sua immagine. Il godimento dell’uomo è quindi un godimento estetico che passa attraverso la messa in scena della donna. L’estetica per la donna è fondamentale, l’accuratezza nel vestirsi e nel truccarsi non è un fatto neutro ma è il modo stesso in cui la donna si pone nei confronti dell’uomo. La cura che l’uomo di oggi ha di se stesso è un sintomo di come si avvenuto un ribaltamento di posizione. L’uomo da cacciatore è diventato coniglio, si trucca, si depila, sceglie con cura come vestirsi perché ora anche lui deve esibire un immagine. E’ la donna che oggi gode dell’immagine e spara col fucile. La donna emancipandosi ha subordinato l’uomo.
Ma ritorniamo alla nostra analisi. La posizione della donna è una posizione estetica. Questa estetica però è vincolata dalla morale. La donna è preda ma non deve concedersi al cacciatore a meno di voler passare come una sgualdrina. Per la donna la concessione deve rimanere un fatto privato, da nascondere al pubblico. Ma perché? Perché la concessione della donna è la sua morte. Concedendosi al cacciatore la donna consegna la sua vita e si mortifica. La morte però è pornografica, è scandalosa e per questo deve rimanere nascosto, nessuno deve parlarne. Al contrario, per il cacciatore la concessione della preda equivale al trofeo. L’uomo godendo della donna la priva della vita e la riduce in trofeo. Il trofeo è il simbolo del potere del cacciatore che, esibendo la pelle della preda, esibisce agli altri la sua superiorità . Per questo l’uomo tende a parlare delle sue conquiste.
Ovviamente la donna, come preda, sa delle intenzioni del cacciatore, sa che il suo interesse è volto al godimento eppure continua a mostrarsi come preda. Allo stesso tempo il cacciatore sa che per godere della preda deve nascondersi, deve camuffare le sue intenzioni, deve cioè nascondere il fucile. Si crea quindi un gioco di dissimulazioni. La donna deve ingannarsi per concedersi e il cacciatore deve presentarsi per quello che non è per far si che l’autoinganno della donna possa giungere a compimento. Entrambi ingannandosi ingannano. Il rapporto di conquista consiste proprio in questo gioco di dissimulazione. La donna si inganna cercando di vedere nel cacciatore il bravo ragazzo e il cacciatore per continuare l’inganno della donna nasconde il fucile della conquista presentandosi come uomo-non-di-armi. Di per se lo stesso concetto di bravo ragazzo è un concetto che non ha senso: la morale appartiene alla donna, non all’uomo. Il bravo ragazzo non è differente da quello di cattivo ma è diverso nel modo in cui si è posto nei confronti della donna. Il cattivo ragazzo è cattivo nel dissimulare, è lo schietto. Non esistono buoni e cattivi ragazzi, l’interesse dell’uomo è quello. Arriviamo ora a quei famosi “motivi” dell’esempio iniziale. Come è possibile che il secondo ragazzo non facendo nulla sia riuscito a trovare la donna? La risposta sta proprio nel rapporto di dissimulazione. Pensiamo per un istante a quando ci mettiamo insieme ad una donna? Subito inizia la sfilata della carne. Ragazze che prima non sentivamo da anni si fanno improvvisamente vive, come una legge di natura, il ragazzo fidanzato attrae le donne. Ma perché? Semplice, godendo già di una donna il fidanzato ha messo in vetrina il fucile, non è più un cacciatore ma diventa il vero bravo ragazzo. Per il ragazzo fidanzato ingannare le altre donne è naturale, non è più frutto di un artificio rituale. Il secondo ragazzo, quello dell’esempio, non avendo come fine la caccia della preda si pone come ragazzo fidanzato e cioè come il bravo ragazzo. Il primo ragazzo al contrario continuerà ad esibire il fucile non riuscendo a portare a compimento l’autoinganno della donna. Agli occhi della donna rimarrà sempre un marpione. Per questo ho parlato di motivi, non perché credo che l’amore agisca razionalmente, ma perché esiste una razionalità nella irrazionalità. La conquista è quindi una fatica inutile nel senso che non è un cammino a tappe avente una razionalità, ma è un atto fortuito faticoso.

[1] Qui faccio riferimento all’idea del femmineo e della costruzione dell’immagine di Bruno Corzino

venerdì 23 febbraio 2007

Aforisma del giorno



Tieni duro!
(Cicciolina)

Haiku 9



Lo strano pesce
La ragazza che guarda
e io perplesso

Recensione Vero come la finzione

Che cosa pensereste se un giorno, mentre siete lì intenti come ogni mattina a lavarvi i denti, incominciaste a sentire una voce? Schizofrenia, certo. Ma se non lo fosse? E se in realtà la voce che sentite nel cervello appartenesse ad una persona che esiste sul serio, che in modo preciso, quasi che fosse Dio, riuscisse a descrivere minuziosamente le varie azioni e i vari pensieri che ora fate e ora vi turbano? Ma mettiamo caso che di fatto Voi non sappiate di chi sia la voce, ne tanto meno siete sicuro di non essere impazzito. Mettiamo però che ci sia qualcosa di totalmente strano in tutto questo, e che la voce sia la cosa meno bizzarra. La cosa che vi colpisce è il modo in cui la voce vocifera, ossia il modo in cui parla, un modo totalmente letterario, libresco, come se fosse il narratore della vostra vita, che guarda caso è una storia, una storia letteraria. E se voi foste dei personaggi di un libro e la vostra vita fosse semplicemente una storia abilmente narrata da uno scrittore che voi non vedete, che cosa pensereste?
Questa è la storia di Harold Crick, un agente del fisco solo e senza ambizioni, che vive scandendo il tempo e contando tutto ciò che gli circonda, fino a quando non sentì una voce.
Harold Crick ha fissato tutta la sua vita in orari, tutto per Harold è numerato, il tempo, lo spazio in cui si muove, le azioni che compie, le cose che mangia. I numeri fanno parte della sua esistenza. Ricoprono le pratiche del suo lavoro e invadono il suo quotidiano, tutto è un numero per Harold Crick. Un giorno però Harold sente una voce, chiara e pulita che descrive tutte le sue azioni, un narratore esterno onnisciente che condiziona la sua stessa vita. Così quando Harold parla ad un suo collega la voce narra la sua azione e quando Harold va a dormire come fa abitualmente alle 23:13 la voce dice “Harold va a dormire”. Da questo momento la vita di Harold cambierà radicalmente.
Dopo anni di ferie accumulate il capo ordina ad Harold di andare in vacanza, di prendersi un po’ di tempo, trascendersi attivamente per aprirsi al mondo (direbbe Merleaù-Ponty). Harold compra una chitarra, incomincia a vivere con un suo amico e conosce una ragazza. Ma ecco che le cose ricambiano, la vita di Harold, la storia del romanzo (o tragedia?) prende una brutta piega: mentre Harold è alla fermata dell’autobus che aspetta, la voce dichiara che da lì a poco, da quel momento di pausa, Harold sarebbe morto. Che cosa fareste voi se sapeste di stare per morire? Se una perfetta conosciuta che orchestra la vostra vita in pagine di inchiostro decidesse di punto e in bianco di porre una fine al romanzo e che questa fine coincidesse con la vostra morte? Carpe diem? E perché cazzo morire per una baldracca che manco conoscete? Già, forse la vostra vita fa cagare, forse nemmeno vita la si può chiamare, ma è vostra e di nessun altro e nessuno ve la può togliere per vezzi letterari, ne tanto meno una sconosciuta.
E così Harold “combatte”, cerca in tutti i modi di scoprire chi si cela dietro quella delicata voce femminile, cambia le sue abitudini, smette di andare a letto ad un certo orario, allontana i numeri, d’altronde oramai sta per morire.
Ma come spesso accade la paura della morte apre al risveglio della vita, ad una vita autentica, fatta di valori e non di numeri, vissuta con gli occhi aperti e non illudendosi di guardare campi di fragole all’infinito. Harold Crinck si appresta alla morte e rivive. L’angoscia della morte è il motivo della rinascita esistenziale di Harold che adesso è innamorato, che adesso suona la chitarra che adesso non è più solo e che adesso è ancora ora e adesso e ancora.
Ma di chi è la voce? La voce è di Kay Eiffel, una cometa col blocco della scrittrice che fa morire in tutti i suoi romanzi i relativi protagonisti. Ma Kay Eiffel è come Harold Crick, una donna sola e annoiata che scrive la vita più che viverla. Kay Eiffel vive nella sua scrittura, scrive e fuma, guarda la vita per cercare di stenderla nella carta, non per cercare di farne esperienza.
Alla fine Harold incontra Kay pregandola di non farlo morire, il finale potete capirlo da voi. Nonostante l’happy ending scontato il film è davvero carino, ben interpretato, ben narrato, e soprattutto carico di riflessioni. Ne butto giù solo 3. La prima, semplice, riguarda il classico rapporto arte e natura, e cioè, è la vita di Harold che imita il racconto di Kay oppure è questo a imitare. Il prodotto artistico imita la vita per cui di fatto le storie dei romanzi sono semplicemente copie delle storie della vita, e perciò sono esistiti, o andranno ad esistere, realmente da qualche parte i vari Raskolnikov, i Gatsby, i Corleone etc. oppure è la vita stessa che imita l’arte e quindi i Wilde, Stalin o Filippo Bellissima possiamo considerarli come copie di copie.
Seconda riflessione, più filosofica. E se noi tutti fossimo protagonisti di un romanzo, e la nostra vita fosse nelle mani di uno scrittore che agisce continuamente nel mondo a colpi di penna, cosa rimarrebbe del libero arbitrio. Alla fine Harold è libero? O forse la libertà di Harold, l’unica liberta concessagli, consiste nella capacità di influenzare lo scrittore? E se lo scrittore, come un dio lontano e trascendente non fosse conoscibile per tanto influenzabile, cosa rimarrebbe della libertà di Harold?
Riflessione terza, la fortezza solipsistica. Se noi fossimo personaggi di un romanzo e le nostre vicende e le persone che ci circondano fossero frutto della creatività letteraria dello scrittore, il mondo sarebbe ancora “vero”? La persona che mi è di fronte esiste in quanto esistente oppure è solo la configurazione di frasi scritte dallo scrittore? E se solo io fossi vero?
Al di là delle domande il film è davvero carino, e in fondo è questo che conta, no?

giovedì 15 febbraio 2007

L'uovo e la gallina: alle radici del dibattito sulla vita

Da che cosa trae origine un essere vivente? Come è possibile che due individui, accoppiandosi, generino una nuova vita? E’ forse in virtù di una materia indifferenziata che si originano ex novo gli esseri viventi, oppure questi stessi esseri sono già preformati nell’ovulo o nello spermatozoo?
Oggi, grazie agli studi della Biologia dello Sviluppo, sappiamo che il nuovo individuo si origina dall’unione di due elementi specializzati, i gameti: quelli maschili, spermatozoi, e quelli femminili, cellule uovo. Il legame tra genitore e figlio è dato quindi dalle cellule riproduttive. Queste cellule però sono piccolissime, talmente piccole da risultare invisibili all’occhio umano, così non fu facile stabilire che proprio dalla loro unione si otteneva il nuovo individuo.
La conoscenza che oggi noi abbiamo del concepimento e dello sviluppo embrionale è il risultato di un dibattito plurisecolare che vide contrapposti non solo due modi di considerare l’origine della vita, ma anche e soprattutto due modi di considerare la natura.
Ancor prima che l’occhiale galileiano si mutasse nell’occhialino, negli anni di Galileo e del giovane Cartesio il dibattito conoscitivo si era arenato su un affascinante problema della natura: l’origine della vita.
Nel 1651 William Harvey, famoso per gli studi fisiologici sulla circolazione del sangue[1], scrive le Exercitationes de generatione animalium in cui espone una concezione della vita di tipo preformista. La forma dell’individuo, dice cioè Harvey, preesisterebbe miniaturizzata nell’uovo. La forma viene, per Harvey, da una forma preesistente che si “converte” in agente efficiente sulla materia e rimane identica a se stessa, sebbene sia inosservabile durante tale conversione.
«Omne vivum ex ovo»[2], la vita nasce dall’uovo.
Venticinque anni prima della pubblicazione dell’Exercitationes de generatione animlium Galileo scrisse, in una lettera inviata al principe Cesi, presidente dell’accademia dei Lincei, di aver «messo a punto un occhialino che faceva apparire grandi le cose piccole»[3]. Nasce il microscopio. Nel giro di pochi anni grazie ad esso avvengono importanti scoperte, come il dotto pancreatico, le ghiandole di secrezione delle guance, i capillari etc. Alla luce di queste scoperte, vecchie teorie sul corpo umano vennero riviste. Il microscopio, l’occhialino, spinse lo sguardo al di là del visibile. Sono questi gli anni in cui si impone un idea di corpo come mirabile strumento meccanico.
Nel 1633 esce l’Homme di Cartesio, con lo schema di un embriologia meccanica. Il corpo viene interpretato sulla base del funzionamento meccanico dei suo organi. La macchina diventa il modello di spiegazione dei fenomeni del mondo vivente[4]. Nasce la iatromeccanica, cioè meccanica applicata alle attività di ricerca del medico-biologo. L’uomo creò la macchina e la macchina divenne l’uomo.
Tra i più grandi iatromeccanici del Seicento bisogna annoverare Alfonso Borelli di Messina. Nel 1681 viene pubblicato postumo la sua opera più importante, il De motu animalium in cui dimostra come le azioni reciproche tra osso, tendine e muscolo possano essere ridotte ad un sistema meccanico di pesi e contrappesi. L’analisi meccanica è rigorosa. Ma perché parlare di Borrelli parlando del dibattito sulla vita? Semplice, perché uno dei suoi allievi era Marcello Malpighi, anatomista, microscopista e soprattutto preformista ovista. Nel 1637 Malpighi scrive la Dissertatio epistolica de formatione pulli in ovo. In quest’opera lo studioso italiano osservò al microscopio che nella cicatrice di un uovo gallina non fecondato si poteva vedere già preformato il pulcino in miniatura. E’ la prova inconfondibile per Malpighi della bontà delle argomentazioni dell’ovismo.
La matrice del nuovo organismo è ancora cercata nell’uovo, lo spermatozoo non era ancora stato scoperto. Per questa scoperta si dovrà aspettare fino al 1677 quando uno scienziato olandese, Anton van Leewenhoeck in una lettera manoscritta inviata alla Royal Society annuncia di aver visto al microscopio «animali rotondi e dalla coda sottile dotati di grandissima mobilità»[5]. Come spesso accade ciò che porta ad una scoperta è l’imprevisto, e così avvenne per la scoperta degli spermatozoi. Il giovane Jan Ham, studente di medicina, si era recato da Leeuwenhoeck, che sapeva usare e costruire i migliori microscopi di tutta l’Olanda, con un campione di sperma prelevato all’uopo da un paziente che soffriva di gonorrea[6]. Analizzando col microscopio quel liquore il microscopista olandese aveva scorto per la prima volta «degli animali vivi, dotati di coda e incapaci di sopravvivere più di 24 ore»[7]. All’inizio si pensò ad una malattia, ma quando Leeuwenhoeck incominciò ad analizzare campioni di liquido seminale prelevati da pazienti sani allora capì che quegli «animalcoli spermatici» erano caratteristica di tutti i liquori maschili[8].
Con Anton van Leeuwenhoeck nasce l’idea che l’individuo si trovi già preformato non nell’uovo, come pensavano scienziati illustri come Harvey e Malpighi, bensì nello spermatozoo. Si trattava sempre e comunque di una teoria preformista a cui faceva di riferimento l’idea dell’individuo preformato miniaturizzato: l’homunculus. Da questo momento il preformismo sarà, o ovismo, per cui l’individuo, l’homunculus, si trova “inscatolato” – emboite[9] – all’interno della cellula uovo, o animalculismo, per cui l’individuo si trova all’interno del liquido seminale.



Figura 1. Esempio dell’homunculus secondo la teoria animalculista.

Bisogna anche considerare che il modello preformista oltre a fungere da cornice concettuale di tipo scientifico riposava su una concezione creazionistica della natura: Dio, all’alba dei tempi, creò tutte le forme viventi con un singolo atto e le rese capaci di riprodursi meccanicamente , senza dover intervenire continuamente. La preformazione è dunque un atto divino che coincide con la creazione, da parte di Dio, di germi preesistenti all’individuo adulto, che ne direzioneranno lo sviluppo futuro. Dio creando Adamo ed Eva creò i germi della loro stessa prole, germi già preformati in ogni loro parte, germi a cui non restava altro che crescere e svilupparsi fino a diventare nuovi individui maturi, ma senza che nulla si creasse. La vita era già presente, era già stata messa, come nel seme è già presente l’albero che andrà a formarsi.
Se l’individuo si trova preformato all’interno della cellula uovo (ovismo), e se tale individuo è femmina, allora al suo interno sono contenute a loro volta minuscoli individui che, se anch’esse femmine, al loro interno ne contengono altre ancora più minuscole, e così via, come una sorta di bambola matrioska che prosegue all’infinito. In altre parole, per i preformisti ovisti nelle ovai di Eva era contenuto l’intero genere umano. Per gli animalculisti invece fu Adamo a generare l’umanità, cosa provata dopotutto dal fatto che fu Adamo stesso il primo ad essere stato creato. E così nel XVII secolo il dibattito tra animalculisti e ovisti diventa il dibattito tra chi sosteneva Eva e chi Adamo, chi l’uovo e chi la gallina alle spalle dell’uovo. Da una parte Malpighi e Harvey a favore di Eva e dall’altra Leeuwenhoeck e il suo discepolo Hartsoeker a favore di Adamo[10].
Nonostante l’importanza della scoperta di Leeuwenhoeck, nel XVIII secolo la tesi ovista fu nettamente predominante su quella animalculista, specie in Italia. Comunque l’individuo, e per l’uno, e per l’altro, si formava attraverso generazione e non fecondazione, nel senso dell’unione di due germi. O era per la cellula uovo o era per lo spermatozoo, e questo significava molto semplicemente che chi credeva in una teoria non poteva credere nell’altra. L’idea di generazione come fecondazioni nascerà solo nell’Ottocento, con le ricerche dell’embriologo Oscar Hertwig sulle uova del riccio di mare. Ma prima di Hertwig e prima del nuovo secolo fu Lazzaro Spallanzani a riconoscere l’importanza del contatto diretto dello sperma con le uova per ottenere la fecondazione di queste ultime, dove l’embrione esisterebbe preformato[11]. Con Spallanzani si chiuse quindi il dibattito tra ovisti e animalculisti rimanendo comunque all’interno di un discorso preformistico.
Tra le righe del preformismo si legge l’ambizioso progetto di ricondurre il testo biblico entro i ranghi di un ordine meccanicistico e razionale: tutti gli esseri viventi si inseriscono in uno schema preciso, che spiega le loro affinità e differenze, in obbedienza a quelle leggi con cui Dio, nell’atto di dare una forma alla natura l’ha sapientemente regolata. L’esponente più importante del creazionismo fu lo svedese Carl Linnè. Per il botanico Linneo le specie sono fisse e immutabili poiché ogni forma è stata prodotta da Dio nel momento della creazione. Tutto il lavoro di Linneo si può leggere come il tentativo grandioso di catalogare e ordinare tutte le forme viventi all’interno di una concezione della natura ordinata e finalistica.
Tutto questo però mal si adattava allo spirito del secolo dei lumi, d’altronde, come poteva mai adattarsi l’idea di una natura statica e immutabile al secolo del dio Progresso? Per gli illuministi fu quindi necessario superare il preformismo, abbandonare l’idea meccanica e considerare la natura in modo dinamico. L’uomo smise di essere una macchina e la vita divenne processuale e funzionale.
Fu in questa nuova visione del mondo e dell’uomo che nacque l’epigenesi, la nuova teoria della generazione che andrà a sostituire quella preformista. Nel 1759 Caspar Friedrich Wolff scrive la Teoria della generazione in cui afferma, grazie alle osservazioni microscopiche degli organi delle piante e dell’embrione del pulcino, che gli organi di un essere vivente non sono preformati nell’ovulo o nello spermatozoo ma si originano ex novo in base a cause insite nelle dinamiche dello sviluppo stesso. Si tratta di una teoria che offre il vantaggio di riconoscere alla natura una sua propria azione e che, servendosi quanto meno possibile del soprannaturale, lascia alla natura tutto ciò che seguisse al primo incominciamento[12].
Il bisogno epigenetico, un bisogno filosofico nato dall’esigenza di considerare diversamente la natura, diventerà acutissimo con Buffon e Lamarck. A poco a poco l’idea di natura linneana statica e immutabile andrà a sgretolarsi. Con Lamarck le specie si modificano per influenza dell’ambiente, con Cuvier le specie di Linneo vengono sostituite con gli embranchements, i tipi zoologici. La natura ha definitivamente cambiato aspetto, ma cosa rimaneva della genesi dell’uomo?
Oggi, grazie ad una serie di studi , che vanno dalla genetica alla biochimica e all’embriologia, sappiamo che il nuovo organismo è in grado di raggiungere la sua struttura definitiva attraverso un processo dinamico di successive trasformazioni, il cui programma si trova precostituito nel suo patrimonio ereditario. Se da una parte sia epigenesi che preformismo furono due modi altrettanto sbagliati nel considerare il processo generativo, di fatto entrambi avevano ragione: i preformisti, poiché le strutture di attivazione genetica costituiscono una sorta di mappa del futuro organismo; gli epigenisti perché si è scoperto che le interazioni tra popolazioni cellulari e i fattori ambientali, non sono riducibili a delle semplici influenze sul corso di sviluppo determinato dai geni[13].
In conclusione, si può considerare il dibattito tra preformisti ed epigenisti come un discorso complesso sull’origine della vita che riguardò il modo stesso di considerare la natura , un dibattito in cui si contrapposero non solamente diverse concezioni scientifiche, mediche o biologiche ma anche e soprattutto ispirazioni filosofiche e teologiche.


[1] W. Harvey, Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus, 1628
[2] W. Harvey, De generatione animalium, 1651
[3] G.Galilei, Lettera a Federico Cesi, in Il carteggio Linceo, Roma, G. Gabrieli, 1996, pp. 964
[4] Nel 1747 esce l’Homme machine di Julien Offroy de la Mettrie in cui si espone l’idea dell’uomo come gigantesco e complessa macchina, una sorta di grande orologio meccanico.
[5] A. Leeuwenhoek, Epistolae ad Societatem Regiam Anglicam,Lugduni Batavorum, 1719, p. 123
[6] A quel tempo con gonorrea si indicava la perdita involontaria di seme
[7] A. Leeuwenhoek, , Epistolae ad Societatem Regiam Anglicam,Lugduni Batavorum, op. cit., p. 123
[8] Non tutti riconobbero gli studi di Leeuwenhoeck, Antonio Vallisneri per esempio nell’opera istoria della generazione del 1721 nega la veridicità degli animalcoli spermatici
[9] Emboitè ed emboitment sono termini che appartengono al lessico settecentesco del preformismo
[10] Ovviamente Malpighi, Harvey, Leeuwenhoeck e Hartsoeker sono presi a carattere esemplificativo, all’interno del dibattito furono di scena moltissimi altri medici e biologi illustri.
[11] Spallanzani, Lazzaro, Prodromo di un’opera da imprimersi sopra le riproduzioni animali, Modena, nella Stamperia di Giovanni Montanari,1768
[12] La teoria epigenista sarà accettata anche da Immanuel Kant.
[13] L’embriologo Waddignton parla di “paesaggi epigenetici”